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La sacra liturgia dell’amore impuro

di Carmelo Alberti
  prima lettera
Data di pubblicazione su web 21/09/2015  

Sotto le austere arcate del Teatro Olimpico di Vicenza un drappo di velluto rosso si distende fino a ricoprire interamente il proscenio, dispiegandosi in basso verso l’orchestra, dove si scorge una gigantografia della Venere dormiente di Urbino di Tiziano; sul palcoscenico sono disposte in disordine le travi di legno scuro che compongono un crocifisso. Sopra l’arcata centrale, mentre si riflette una foto ovale del criminale Charles Manson in catene, si legge l’epigrafe: «La fede è come amare qualcuno che è lì fuori, nella nebbia, e non si rivela mai per quanto forte lo si chiami», come recita la Lettera di Marta a Tomas, il pastore che ha smarrito la fede, nel film Luci d’inverno di Ingmar Bergman. Frattanto, una giovane fanciulla entra nello spazio del sacrificio, seguita di lì a poco dalla figura di un Cristo denudato, sulla cui pelle brilla una patina di color aureo. Tra loro si compie un rito di seduzione, antisimbolico e apparentemente iniziatico, utilizzando una valigetta-altare da cui traggono fuori il calice e il corporale. È questo l’avvio della graffiante rappresentazione scritta, diretta e interpretata da Angelica Liddell, Prima lettera di San Paolo ai Corinzi - Cantata BWV 4, Christ lag in Todesbanden. Oh, Charles!, che ha inaugurato con successo, in prima nazionale, al di là di qualche flebile e insignificante polemica, la 68a stagione degli spettacoli classici dell’Olimpico, curata da Emma Dante.


Un momento dello spettacolo. Foto di Francesco Dalla Pozza - Colorfoto Artigiana.
Un momento dello spettacolo
© Francesco Dalla Pozza - Colorfoto Artigiana

Rimanendo fedele alla propria caparbietà creativa, la regista catalana negli ultimi anni si è dedicata al progetto denominato il Ciclo delle Resurrezioni, che comprende tre passaggi: You Are my Destiny, Tandy e Primera Carta de San Pablo a los Corintios. Si tratta di lavori contrassegnati, come ha dichiarato lei stessa, dall’«eresia» del ritorno alla vita dopo la morte, sebbene ciò non coincida sempre con una resurrezione del corpo. Al centro dello schema drammaturgico si colloca l’esaltazione spasmodica e totale dell’amore, inteso come il fervore radicale dell’umano che straripa oltre la sfera carnale fino alla dimensione del sacro. Nel primo testo, ad esempio, ispirandosi al poemetto shakespeariano Lo stupro di Lucrezia, a Tito Livio e alla Lucrezia di Händel, Angelica recupera il tema della violenza che travolge la castità femminile e conduce all’annullamento di sé mediante un’interminabile danza, proiettata oltre i confini del tempo. In Tandy, invece, emerge il tormento interiore di colei che cerca spasmodicamente il senso della pena amorosa; stavolta, sulla scia del Lamento della ninfa di Claudio Monteverdi, l’artista tende a definire uno stato di sofferenza inquieta e velata.

La Prima lettera di San Paolo ai Corinzi, che costituisce il terzo atto del Ciclo, offre agli spettatori la concezione di una teologia laica, tanto sofferta quanto assoluta, che insegue la trama di una personale liturgia dell’incarnazione lungo la traccia del caos, della disperazione e del tormento. Nella lunga tirata centrale, detta la Lettera della Regina del Calvario al Grande Amante, l’attrice Angelica grida fino allo stremo il tormento del desiderio di essere posseduta da un tramite maschile, perché solamente per questa via è possibile congiungersi, attraverso il sacrificio di Cristo, all’idea di Dio. La febbre d’amore si traduce in un fiume di parole, scandite da un ritmo crescente fino a assumere i toni striduli e implosivi della crudeltà artaudiana: Emma Dante ha definito la Liddell un Artaud al femminile. Alla base dell’amore e della fede la protagonista scorge la coesistenza della molla della follia; è pazzo chi ama, è folle chi crede. Si rivela, a poco a poco, un’autoanalisi che traspira dai ricordi infantili, dalla morbosità dei sogni religiosi, dalla ribellione verso le convenzioni, dalle proibizioni che distorcono l’istintiva tensione sessuale delle creature verso il loro creatore. Lo scritto di San Paolo dichiara la difficoltà che prova l’«uomo naturale» nell’intendere l’enigma dello spirito santo; per la regista occorre, allora, sovvertire il processo morte-resurrezione, esaltando l’impulso irrazionale («pre-razionale») dell’umanità, traducendo il percorso verso l’estasi in un atto amoroso impuro, alla stregua di Dante che ha trasformato il legame con Beatrice in una catarsi religiosa.


 Un momento dello spettacolo. Foto di Francesco Dalla Pozza - Colorfoto Artigiana.
Un momento dello spettacolo
© Francesco Dalla Pozza - Colorfoto Artigiana

Lo spettacolo risulta complesso, non offre soluzioni, ma accosta l’intensità della preghiera all’azione blasfema (secondo l’idea di Grotowski): la nudità di Cristo, un tratto simbolico che annulla il vuoto dello spazio scenico, fissa un itinerario che conduce al martirio sulla croce: i sei frammenti di legno, caduti dal Golgota, si sommano alle tracce del sangue che il figlio di Dio, interpretato da Sindo Puche, si fa prelevare realmente in scena e che distilla in parte sul telo della sindone, mentre assume su di sé il peso dei peccati; è il grave fardello di quella malvagità sintetizzata dalla foto di Manson, che riaffiora alla fine come un contrappunto necessario al trionfo del bene. La presenza della Maddalena, recitata da Victoria Aime, è un ulteriore snodo nel conflitto che contrappone il sentimento alla violenza: la donna accusata di essere peccatrice accetta di sottoporsi al taglio effettivo dei capelli come un gesto in grado di annullare la propria sessualità nell’adorazione dell’amato salvatore. La relazione passione/morte/resurrezione si amplifica quando appare il coro delle cinque Maddalene nude e rasate, che recano teschi di cervo ramificati e che, sconfinando nel culto pagano di Venere, s’inebriano del vino che proviene dal sangue e si sfamano con un morso vorace sulla mano del corpo immolato. Un capro sacrificale pende sotto l’arcata centrale del teatro, mentre s’innalza la ben regolata coralità della Cantata di Bach.

Un elogio convinto è da rivolgere, anzitutto, all’energia espressiva di Angelica Liddell, artefice assoluta che conosce l’arte di amalgamare una quantità di suggestioni musicali e figurative, di influssi cinematografici (oltre a Bergman, c’è il respiro del Tarkovskij di Nostalghia), di letture poetiche e saggistiche, da Freud a Barthes e alla scienza, per una messinscena che sfida l’incoerenza delle fedi mediante un procedimento arcaico e, insieme, razionale, e che esalta la forza travolgente dell’amore al pari di una sfida rivolta all’ineluttabile incongruenza della morte.




Prima lettera di San Paolo ai Corinzi
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