Giacarta:
in un appartamento condiviso con unanziana signora disabile, il trentenne Alek
(Chicco Jerikho) si guadagna da
vivere traducendo con Google Translate i sottotitoli dei DVD pirata (per lo più
pornografici). Di lui si innamora Sari (Tara
Basro), graziosa estetista ventottenne appassionata di cinema, che si
rivolge al ragazzo per lamentarsi della scadente qualità di uno dei DVD. Tra i due nasce un amore tenero e
scalcagnato, pieno di fantasia e cinefilia. Intanto le piazze, le radio e le
televisioni sono “invase” dalla campagna per le imminenti elezioni del governo nazionale.
Il film dellindonesiano Joko Anwar ha le carte in regola per
dar vita a una love story alla Wong Kar-wai vecchia maniera: la
passione nelle piccole cose, la poesia dei corpi, dei contatti fisici, degli
oggetti, dei dettagli. Ma a due terzi del film
succede limprevisto: la protagonista, inviata in una prigione di lusso a fare
la pulizia del viso a una donna incarcerata per corruzione, ruba un DVD in cui
scoprirà un filmato compromettente per alcuni esponenti governativi. Improvvisamente
scatta la violenza: il datore di lavoro caccia Sari dal negozio malmenandola, mentre
Alek è rapito e torturato. La protagonista, da quel momento in poi, ripercorre
tutti i luoghi del film, innescando una sorta di diterazione di quanto già
visto, forse la “copia della mente” cui allude il titolo. Infine, il politico
corrotto vince le elezioni e Sari riabbraccia il suo amato.
Una scena del film
Non
è chiaro quale sia lintento di Anwar. Il film sembra riflettere sulla
possibilità di una seconda chance per
le nostre azioni e sul fatto che tale replica risulti più disillusa e “adulta” delloriginale:
da qui lo straniamento della protagonista e lanalogia (malriuscita) con i film
pirata del compagno. Unaltra ipotesi è che il regista intenda sottolineare
come la violenza scaturisca dalla volontà di possesso (lhome theatre nel caso di Sari, la casa in campagna per il rapitore),
ma, se così fosse, gli elementi critici risultano sporadici, vaghi, incoerenti.
Non solo le intenzioni non sono chiare, ma la loro resa cinematografica non
funziona: la presenza costante della steadicam
anziché portarci nei meandri di Giacarta ce ne allontana appiattendo il
contrasto tra quotidianità e realtà socio-politica.
Il tutto potrebbe essere archiviato, se non fosse che in unintervista
il regista ha dichiarato: Ğil film è la mia lettera di amore a Giacarta;
soprattutto, però, volevo esporre la situazione politica attualeğ. Lintentio auctoris, prosegue Anwar, è
quella di denunciare come Ğreligione, sperequazione sociale, corruzione e
politica siano strettamente connesse alla vita di ognuno, anche e soprattutto di
chi proviene da uno stato sociale bassoğ. Purtroppo tale proposito si è dissolto
in una troppo ambiziosa riflessione autoreferenziale. Il topos del protagonista non politicizzato portato dalla dinamica
degli eventi a confrontarsi con il potere, già di per sé ampiamente abusato, si rivela molto lacunoso a livello narrativo, quasi che i
conti debbano tornare a priori: lo scontro fortuito con i “potenti” non
porta i protagonisti a una presa di coscienza, né è ben chiara la gravità del
crimine commesso.
Una scena del film Anwar cerca di denunciare una precisa situazione politica e
al contempo se ne allontana astraendo i fatti dalle contingenze storiche. Lautore
lascia che esse emergano spontaneamente dallo sfondo delle vicende amorose, ma
senza che si instauri una connessione tra le due sfere. Volendo descrivere la realtà di Giacarta, Anwar non esprime
che la sua confusa ambizione a entrare nello stardom dei registi dessai,
infarcendo il materiale di partenza di rimandi eterogenei e disomogenei. Tutto
il film è condizionato da questo fatale errore di prospettiva.
Linvettiva sociale, a conti fatti, è talmente
spuntata da trasformarsi nel suo opposto, dando allo spettatore occidentale
limmagine di una Indonesia non ricca ma tutto sommato benestante, in cui si
vive in minuscoli appartamenti condivisi con decine di persone ma dove il
lavoro non manca, i dipendenti hanno un forte potere contrattuale e chi
arrotonda con qualche attività al nero riesce pure ad arricchirsi. Dispiace
dover demolire un regista poco noto, ma con i film di denuncia non si scherza, e
usare le proteste antigovernative come semplice espediente narrativo rende solo
un pessimo servizio a tutti. Le competizioni internazionali si vincono non
scimmiottando modelli “colti”, ma con una riflessione politica seria,
consapevole e personale, come allultima Berlinale ha dimostrato lultimo, bellissimo
Taxi di Jafar Panahi. Una grande occasione sprecata.
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