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Heart of a dog

di Raffaele Pavoni
  Heart of a dog
Data di pubblicazione su web 10/09/2015  

Quasi dieci minuti di applausi all’autrice, presente in sala, mentre i titoli di coda scorrevano sulle note di Turning Time Around del recentemente scomparso Lou Reed che le fu compagno e marito. Parliamo di Laurie Anderson, prodotto genuino della New York underground degli anni ’70, figura a metà strada tra la visual artist e la poetessa urbana, tra la popstar televisiva e la compositrice colta e sperimentale, che, dopo essersi cimentata con ogni tipo di medium, si presenta a Venezia con il suo primo, atteso lungometraggio.

Heart of a dog è un prodotto che avrebbe forse trovato una più facile collocazione al MoMA o al Guggenheim. Artista poliedrica e multimediale, Anderson ha toccato il cinema solo tangenzialmente con la partecipazione a Così lontano così vicino di Wim Wenders (1993). Il suo percorso si colloca nell’ambito delle sperimentazioni della seconda metà del Novecento, da Brian Eno a Robert Wilson, da John Cage a William S. Burroughs, da Philip Glass al gruppo Fluxus.


Un'immagine del film
Un’immagine del film

Sfruttando la sua fama di compositrice e artista, Anderson ha proposto un oggetto strano e affascinante, una commistione di forme e contenuti eterogenei. Il tutto non per annunciare il proprio Adieu Au Langage e costruire l’ennesimo giocattolo autoriflessivo e autodistruggente, bensì (e qui viene fuori tutta la caratura dell’artista pop) per analizzare e trascendere la realtà con un linguaggio al contempo sperimentale e popolare, personale e universale.

Heart of a Dog è una sorta di requiem per Lolabelle, rat-terrier cui l’autrice era molto affezionata. Accompagnato dalla costante voce over della protagonista, il film combina e sovrappone immagini statiche e dinamiche, disegni e filmati in 8mm miscelati in un registro che spazia dal cinema privato a quello sperimentale, dalla performance musicale al videodiary.

La pellicola è la prova empirica che il cinema può e deve tornare a fare appello a soluzioni stilistiche e poetiche elaborate in contesti underground, nelle scuole d’arte, nelle abitazioni private. È curioso che, a due anni dalla scomparsa di Lou Reed, Laurie Anderson abbia deciso di omaggiarlo con un videorequiem sulla morte della bestiola. «Lou è parte integrante di tutto, il suo spirito è molto presente», ha affermato l’artista in conferenza stampa: «con lui abbiamo discusso molto della forza e di come si possa mettere energia nelle cose semplici». Il leader storico dei Velvet Underground compare solo in un paio di scene, una manciata di frames che probabilmente molti non hanno neanche notato. 


Un'immagine del film
Un’immagine del film

È più che comprensibile che l’autrice abbia voluto evitare di mettere in risalto la figura del musicista, col rischio che un’opera così personale e sofferta fosse ridotta a un semplice rockumentary. In questo senso, la citazione che il film fa di Paul Foster Wallace («ogni storia di amore è una storia di fantasmi») entra in connessione con quelle parole, struggenti e intrise di gioia, scritte da Laurie dopo la morte del marito: «ero riuscita a camminare con lui fino alla fine del mondo. La vita – così bella, dolorosa e spettacolare – non può dare qualcosa più di questo. E la morte? Penso che lo scopo della morte sia la realizzazione l’amore».



Heart of a dog
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