Strano concorso quello dell'ultima 72ª Mostra del Cinema di Venezia: pochi grandi maestri (di scarso richiamo presso
il grande pubblico tranne, forse, Bellocchio),
una musicista videoartista (Laurie
Anderson), molti, forse troppi, italiani e molte opere prime o seconde. Tra
queste, grazie anche allo spostamento di meridiana tra loriente di Müller
e lAmerica Latina di Barbera, ha trovato posto il primo lungometraggio
di Lorenzo Vigas, misconosciuto
documentarista venezuelano che probabilmente in altre edizioni più “ricche”
sarebbe stato dirottato nella sezione Orizzonti;
per fortuna non è stato così perché Desde
allá (che in italiano significa “da lontano”) è senza dubbio una delle
(poche) piacevoli sorprese della Mostra.
Una scena del film È la storia di Armando Marcano,
un odontotecnico ultracinquantenne di Caracas anaffettivo, incapace di
relazionarsi e di “toccare” gli altri, che adesca ragazzi di strada per il solo
gusto di guardarli mentre si masturba. Armando è anche ossessionato dalla
figura del padre, un uomo di potere che spesso pedina senza farsi vedere. Qualcosa
cambia quando il protagonista incontra Elder, ragazzo difficile dal quale viene
malmenato e derubato. Questo contatto fisico violento fa scattare
nellodontotecnico una strana e “fredda” ossessione che lo spinge a ricercare
il giovane. Da parte sua Elder, sentendosi “amato” per la prima volta, inizia a
provare un forte affetto e unambigua attrazione verso Armando, al punto da
volerne risolvere, a suo modo, i tormenti.
Alla vitalità dellottimo
esordiente Luis Silva (Elder) si contrappone la maschera impassibile
del grande Alfredo Castro (volto
imprescindibile del nuovo cinema cileno di Pablo
Larrain), perfetta per un film in cui tutto procede anche grazie a ogni
piccolo mutamento di espressione e di postura del suo protagonista. Lattore
riesce a congelare sulla propria faccia sentimenti come lodio, il desiderio,
la passione e lamore.
Desde allá
racconta una storia difficile che sarebbe piaciuta a Fassbinder, al cui cinema Vigas non sembra estraneo, richiamandone,
in alcuni momenti, sia la fotografia che la messinscena. Lo stesso Vigas, però,
nel voler caratterizzare stilisticamente la sua opera, eccede nel proporre, già
dallinizio del film, un insistito rifiuto della profondità di campo, optando
per luso fin troppo rigoroso di una focale fissa, molto ravvicinata e stretta
sui suoi personaggi. In questo modo finisce per indugiare su immagini sfocate
quando il soggetto esce dallinquadratura. Sebbene sia chiaro lintento
registico di voler staccare i suoi personaggi dal loro contesto, quasi
affrancandoli dalla violenta realtà di Caracas, in modo da potenziare la
valenza metaforica delle loro dinamiche relazionali, queste frequenti sfocature
non rendono un buon servizio al film, perché finiscono per essere percepite
come un semplice e reiterato esercizio di stile che, in fondo, tende a
sottolineare sempre il solito concetto. Ciò nonostante la storia di Armando ed
Elder non può fare a meno di parlarci anche del Venezuela di oggi, delle sue
dinamiche e delle sue forti differenze sociali, della violenza fatta e subita
come unica affermazione della propria identità, anche allinterno della
famiglia, che diventa trasversalmente il luogo prediletto di brutali tensioni e
insopprimibili rancori.
Una scena del film
La macchina da presa di Vigas, che spesso pedina i
suoi personaggi come in un film dei Dardenne, è capace di condurci
allinterno di due vite a loro modo estreme, in cui limprevedibile freddezza
del rispettabile professionista risulta alla fine più pericolosa dellesplosiva
emotività del ragazzo di vita e dove tutto culmina in unimprovvisa
accelerazione finale, nella quale limmagine torna ad aprirsi nella sua giusta
profondità e a esaltare quelle affascinanti dinamiche tra campo e fuoricampo
che, in fondo, segnano la differenza tra il cinema e il grande cinema.
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