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Questi fantasmi! (dell’inconscio)

di Paolo Patrizi
  Die tote Stadt
Data di pubblicazione su web 15/05/2015  

Die tote Stadt è un’opera costruita sul tema del “doppio”. La vicenda del vedovo inconsolabile Paul, che vive in una casa-mausoleo disseminata di reliquie della moglie morta, e tenta di far rivivere la consorte ricorrendo a una sosia tanto disinibita quanto la cara estinta era santificabile, non è solo la storia di una patologica elaborazione del lutto: è un caso di sdoppiamento come non se ne erano mai visti nel teatro lirico.

Se da un lato troviamo l’identificazione tra il protagonista e una Bruges (la «città morta» del titolo) tormentosa e spettrale, dall’altro si assiste al duello a distanza che la sosia Marietta, ferita nell’orgoglio femminile vedendosi degradata a mero clone, ingaggia con la morta per strappare Paul al culto necrofilo: una danza macabra di traslazioni e immedesimazioni che Korngold, in quegli anni freudiani (la “prima” risale al 1920), orchestrò con sapiente miscela di erotismo e misticismo, in un connubio stilistico di turbamenti decadenti e violenza espressionista che conferma, una volta di più, l’anima divisa in due dell’opera e dei suoi personaggi.


Un momento dello spettacolo © Werner Kmetitsch

Questo spettacolo dato a Graz, tuttavia, moltiplica i punti di vista, triplicando e quadruplicando il tema del “doppio” in un gioco di specchi più arzigogolato della sostanziale linearità con cui Korngold (e il romanzo di Rodenbach alla radice del libretto) sciorina il caso clinico di Paul.

Il regista Johannes Erath e il drammaturgo Francis Hüsers di fatto riscrivono la vicenda, portando in scena una sorta di terapia casalinga: personaggio minore qui convertita in coprotagonista, la fedele fantesca Brigitta – con masochismo squisitamente femminile che la porta a reificarsi per amore del padrone – si trucca e si veste come la moglie morta. Il gioco va avanti da tempo (forse già dal giorno del funerale), sicché signore e cameriera sono ormai, a tutti gli effetti, una coppia. L’arrivo di una sosia vera – non costruita a tavolino – rompe gli equilibri di quel microcosmo: e a mutare il triangolo in quadrilatero si aggiunge il fatto che l’amico di famiglia Frank (altro ruolo di contorno che gli autori dello spettacolo fanno lievitare a dismisura) si trasforma, con il suo erotismo assai meno mortuario, in cattiva coscienza del protagonista, mentre in palcoscenico proliferano tanti Paul, schegge di un Io che tende a riverberarsi ormai in modo incontrollato.

Stratificando le sollecitazioni, e approdando quasi a un bignami della psicanalisi, lo spettacolo porta poi in scena un Paul bambino, spesso accostato a un feretro: la regia cerca di scavare nel passato del protagonista, suggerisce una perdita della mamma in tenera età, ipotizza che quella donna da riportare in vita possa essere non la moglie, ma la madre.


Un momento dello spettacolo © Werner Kmetitsch

D’altronde, pure un altro tòpos psicanalitico – quello religioso – emerge in un’ottica ben più stringente nella rilettura di Erath e Hüsers: anziché il bigottismo di Bruges (città dei beghinaggi, non dimentichiamolo) qui affiora l’ossessività della religione a tutto campo, e la scena della processione si trasforma in un pugno nello stomaco, tra flagellanti in estasi orgasmica e Cristo incarnato da un ragazzo di vita, che fuma impertinente e lascivo sulla croce. E anche le citazioni cinematografiche della messinscena (si va dall’Angelo azzurro a Rebecca, né manca una strizzata d’occhio alla Marilyn Monroe con gonna al vento di Quando la moglie è in vacanza) potrebbero avere un retroterra psicanalitico, se si pensa che Korngold, costretto dal nazismo a una fuga oltreatlantico, dovette trasformarsi da ambizioso operista ad autore di colonne sonore – peraltro profumatamente pagate, e insignite di due Oscar – per la Warner Bros.

Più che a Bruges, insomma, lo spettacolo si colloca nei paraggi della Berggasse 19, indirizzo viennese dello studio di Freud. Le forzature, inevitabilmente, sono molte (tra l’altro quel finale in cui tutto torna come prima sembra escludere, analogamente a Rodenbach ma al contrario del lavoro di Korngold, una guarigione del protagonista dalle proprie ossessioni); e anche musicalmente la drammaturgia si concede manipolazioni, affidando a Brigitta frasi che sarebbero di Marietta.


Un momento dello spettacolo © Werner Kmetitsch

Ciononostante si esce da teatro più con ammirazione che con perplessità, in virtù dell’alta professionalità della confezione (a fronte d’un uso così abbondante di mimi e figuranti, Erath si rivela fluido impaginatore, mentre l’elegante impianto scenico di Herbert Murauer è un ottimo valore aggiunto) e grazie al fatto che Dshamilja Kaiser – un mezzosoprano stabile a Graz, ma che farebbe onore a qualsiasi grande teatro – ha una solidità vocale e un carisma tali da reggere benissimo l’impatto con l’enorme ampliamento imposto al personaggio di Brigitta. Il problema, semmai, è che la sua pregnanza scenico-canora fa apparire un po’ pallida la vera protagonista femminile. D’altronde il ruolo di Marietta è davvero proibitivo nel giustapporre una scrittura ora da schietto soprano lirico, ora virante verso il mezzosoprano drammatico: e sarebbe ingeneroso fare una colpa a Gal James se appare a suo agio solo sul primo dei due versanti.

Ancor più ineseguibile è la parte di Paul, sorta di Heldentenor borghese che, se Die tote Stadt avesse avuto circolazione in Italia negli anni Cinquanta, sarebbe stata appannaggio di Del Monaco: unico elemento esterno alla compagnia dell’Opera di Graz, Zoltán Nyári l’affronta con generosità, compenetrazione e qualche occasionale cedimento. Morbidezza liederistica e duttilità di emissione sono invece i desiderata vocali di Frank e del pierrot Fritz: due facce della medesima baritonalità – fu Korngold a volerli affidati allo stesso interprete – e, in fondo, un ulteriore tassello di questi casi di dissociazione che costellano l’opera. Ivan Oreščanin, dal canto soffice e malleabile quanto basta, restituisce la nostalgia delle melodie (è al pierrot che spetta la pagina più struggente) e come attore ha l’autorevolezza per imporre al doppio ruolo quella centralità voluta dal regista.

I comprimari si fanno onore, ma restano un po’ risucchiati dal proliferare dei personaggi portati in scena, mentre la direzione di Dirk Kaftan appare tutt’altro che sussidiaria a una regia così invasiva: una lettura plastica e distillata al contempo (al di là del gusto, fondamentale in questa partitura, per un suono bello e ricco), capace d’isolare i grandi momenti melodici senza perdere di vista l’architettura complessiva, attenta agli echi straussiani e pucciniani, ma con la consapevolezza che quella di Korngold è una musica non solo mimetica o genericamente post-romantica. Una concreta rinascita di questo compositore – prima forse sopravvalutato, ma poi certo trascurato – può partire solo da qui.



Die tote Stadt
Opera in tre atti


cast cast & credits
 
trama trama



 
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