Die tote Stadt è unopera costruita sul tema del “doppio”. La vicenda
del vedovo inconsolabile Paul, che vive in una casa-mausoleo disseminata di
reliquie della moglie morta, e tenta di far rivivere la consorte ricorrendo a
una sosia tanto disinibita quanto la cara estinta era santificabile, non è solo
la storia di una patologica elaborazione del lutto: è un caso di sdoppiamento
come non se ne erano mai visti nel teatro lirico.
Se
da un lato troviamo lidentificazione tra il protagonista e una Bruges (la
«città morta» del titolo) tormentosa e spettrale, dallaltro si assiste al
duello a distanza che la sosia Marietta, ferita nellorgoglio femminile
vedendosi degradata a mero clone, ingaggia con la morta per strappare Paul al culto
necrofilo: una danza macabra di traslazioni e immedesimazioni che Korngold, in quegli anni freudiani (la “prima”
risale al 1920), orchestrò con sapiente miscela di erotismo e misticismo, in un
connubio stilistico di turbamenti decadenti e violenza espressionista che
conferma, una volta di più, lanima divisa in due dellopera e dei suoi
personaggi.
Un momento dello spettacolo ©
Werner Kmetitsch
Questo
spettacolo dato a Graz, tuttavia, moltiplica i punti di vista, triplicando e quadruplicando
il tema del “doppio” in un gioco di specchi più arzigogolato della sostanziale
linearità con cui Korngold (e il romanzo di Rodenbach alla radice del libretto) sciorina il caso clinico di Paul.
Il
regista Johannes Erath e il drammaturgo Francis Hüsers di fatto
riscrivono la vicenda, portando in scena una sorta di terapia casalinga: personaggio
minore qui convertita in coprotagonista, la fedele fantesca Brigitta – con
masochismo squisitamente femminile che la porta a reificarsi per amore del
padrone – si trucca e si veste come la moglie morta. Il gioco va avanti da
tempo (forse già dal giorno del funerale), sicché signore e cameriera sono
ormai, a tutti gli effetti, una coppia. Larrivo di una sosia vera – non
costruita a tavolino – rompe gli equilibri di quel microcosmo: e a mutare il
triangolo in quadrilatero si aggiunge il fatto che lamico di famiglia Frank
(altro ruolo di contorno che gli autori dello spettacolo fanno lievitare a
dismisura) si trasforma, con il suo erotismo assai meno mortuario, in cattiva
coscienza del protagonista, mentre in palcoscenico proliferano tanti Paul,
schegge di un Io che tende a riverberarsi ormai in modo incontrollato.
Stratificando
le sollecitazioni, e approdando quasi a un bignami della psicanalisi, lo spettacolo
porta poi in scena un Paul bambino, spesso accostato a un feretro: la regia
cerca di scavare nel passato del protagonista, suggerisce una perdita della
mamma in tenera età, ipotizza che quella donna da riportare in vita possa
essere non la moglie, ma la madre.
Un momento dello spettacolo ©
Werner Kmetitsch
Daltronde,
pure un altro tòpos psicanalitico –
quello religioso – emerge in unottica ben più stringente nella rilettura di
Erath e Hüsers: anziché il bigottismo di Bruges (città dei beghinaggi, non
dimentichiamolo) qui affiora lossessività della religione a tutto campo, e la
scena della processione si trasforma in un pugno nello stomaco, tra flagellanti
in estasi orgasmica e Cristo incarnato da un ragazzo di vita, che fuma
impertinente e lascivo sulla croce. E anche le citazioni cinematografiche della
messinscena (si va dallAngelo azzurro
a Rebecca, né manca una strizzata
docchio alla Marilyn Monroe con gonna al vento di Quando la moglie è in vacanza)
potrebbero avere un retroterra psicanalitico, se si pensa che Korngold,
costretto dal nazismo a una fuga oltreatlantico, dovette trasformarsi da
ambizioso operista ad autore di colonne sonore – peraltro profumatamente
pagate, e insignite di due Oscar – per la Warner Bros.
Più
che a Bruges, insomma, lo spettacolo si colloca nei paraggi della Berggasse 19,
indirizzo viennese dello studio di Freud.
Le forzature, inevitabilmente, sono molte (tra laltro quel finale in cui tutto
torna come prima sembra escludere, analogamente a Rodenbach ma al contrario del
lavoro di Korngold, una guarigione del protagonista dalle proprie ossessioni);
e anche musicalmente la drammaturgia si concede manipolazioni, affidando a
Brigitta frasi che sarebbero di Marietta.
Un momento dello spettacolo ©
Werner Kmetitsch
Ciononostante
si esce da teatro più con ammirazione che con perplessità, in virtù dellalta
professionalità della confezione (a fronte dun uso così abbondante di mimi e
figuranti, Erath si rivela fluido impaginatore, mentre lelegante impianto
scenico di Herbert Murauer è un ottimo valore aggiunto) e
grazie al fatto che Dshamilja Kaiser – un mezzosoprano stabile a
Graz, ma che farebbe onore a qualsiasi grande teatro – ha una solidità vocale e
un carisma tali da reggere benissimo limpatto con lenorme ampliamento imposto
al personaggio di Brigitta. Il problema, semmai, è che la sua pregnanza
scenico-canora fa apparire un po pallida la vera protagonista femminile. Daltronde
il ruolo di Marietta è davvero proibitivo nel giustapporre una scrittura ora da
schietto soprano lirico, ora virante verso il mezzosoprano drammatico: e sarebbe
ingeneroso fare una colpa a Gal James
se appare a suo agio solo sul primo dei due versanti.
Ancor
più ineseguibile è la parte di Paul, sorta di Heldentenor borghese che, se Die
tote Stadt avesse avuto circolazione in Italia negli anni Cinquanta,
sarebbe stata appannaggio di Del Monaco: unico elemento esterno alla
compagnia dellOpera di Graz, Zoltán
Nyári laffronta con generosità, compenetrazione e qualche occasionale
cedimento. Morbidezza liederistica e duttilità di emissione sono invece i desiderata vocali di Frank e del pierrot Fritz: due facce della medesima baritonalità – fu Korngold a
volerli affidati allo stesso interprete – e, in fondo, un ulteriore tassello di
questi casi di dissociazione che costellano lopera. Ivan Oreščanin, dal
canto soffice e malleabile quanto basta, restituisce la nostalgia delle melodie
(è al pierrot che spetta la pagina più
struggente) e come attore ha lautorevolezza per imporre al doppio ruolo quella
centralità voluta dal regista.
I
comprimari si fanno onore, ma restano un po risucchiati dal proliferare dei
personaggi portati in scena, mentre la direzione di Dirk Kaftan appare
tuttaltro che sussidiaria a una regia così invasiva: una lettura plastica e
distillata al contempo (al di là del gusto, fondamentale in questa partitura, per
un suono bello e ricco), capace disolare i grandi momenti melodici senza
perdere di vista larchitettura complessiva, attenta agli echi straussiani e
pucciniani, ma con la consapevolezza che quella di Korngold è una musica non
solo mimetica o genericamente post-romantica. Una concreta rinascita di questo
compositore – prima forse sopravvalutato, ma poi certo trascurato – può partire
solo da qui.
|
|