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Per Luca Ronconi (1933-2015): quasi una “leçon de tenèbres”

di Claudio Longhi
  Luca Ronconi
Data di pubblicazione su web 11/04/2015  

Shivà – «Qui a New Orleans l’aria è secca. // Seduti su due piccoli panchetti di legno / addossati alla parete / i due fratelli Lehman / aspettano / salutano / ringraziano. // La porta si chiude / poi si riapre: un altro. // La barba lunga, tutti e due / non più tagliata da quando è cominciato il lutto»[1]

Il 21 febbraio scorso, sul far della sera, è uscito di scena Luca Ronconi. Senza clamori, col suo consueto passo felpato ed elegante di flâneur del teatro, in bilico tra Baudelaire e Robert Walser, intimamente romano, ma in fondo di casa pure tra Vienna e Berlino. Distinto, caustico e sornione ad un tempo, riservato, ma con insospettabili generose aperture, e in fondo anche un po’ snob, capace di collere bibliche e di insensibilità sconcertanti, ma anche teneramente innamorato delle sue rose e dei suoi cani… Se n’è andato scivolando ironico e leggero, secondo i suoi ben noti tracciati ortogonali, oltre la soglia sospesa, lì a sinistra: una finestra buia ritagliata nel candore clinico e splendente del palcoscenico. Se n’è andato come gli algidi e umanissimi titani della sua ultima fatica, la Lehman Trilogy, in scena quella stessa sera in via Rovello: personaggi esaltati, fissati e di maniera, ricalcati dal copione di Massini, ma profilati con quel suo inconfondibile tratto spezzato, formatosi alla bottega dell’adorato Binswanger. Svelte silhouette grottesche ritagliate da una fantasia di Bosch, o da un capriccio di Goya, incollate sulla piatta e rarefatta attesa, tutta metafisica, di un quadro di Magritte.

Dai tempi leggendari dei Lunatici (1966), ormai mitico anno zero della sua carriera registica che lo aveva visto balzare agli onori delle cronache teatrali nazionali, fino a quella sera di febbraio, Luca era stato (ed era pervicacemente rimasto) l’enfant terrible (e, a tratti, l’enfant gâté) delle nostre scene: sempre, e comunque, l’enfant. Lo era ancora, a quasi ottantadue anni, non per la perniciosa abitudine tutta italiana di ritardare i processi di crescita, ma perché di fatto, in barba all’anagrafe, e a dispetto di ogni pascolismo edulcorato, Luca era rimasto, con tutta la violenza, la crudeltà e la trasgressività del caso, un bambino – meglio: un adolescente estroso e inquieto. In mancanza di una lucida comprensione di questa sua lampante schizofrenia, non si capirebbe la follia, geniale ed ottusa, di circa mezzo secolo di progetti teatrali esorbitanti, vissuti à bout de souffle.

Un ragazzo “favoloso”, una siepe, l’infinito… «Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude» (G. Leopardi, L’infinito, vv. 1-3): in fondo Luca e il suo teatro erano tutti lì, fissati, da sempre e per sempre, in questo icastico quadretto leopardiano. Da una parte un desiderio, quasi pantagruelico, di conoscere tutto – nel senso più fisico e radicale del termine – attraverso la scena; di collezionare e catalogare – sulle tracce di Giulio Camillo – l’universo intero in teatro; di nutrire la propria accesa fantasia di qualsivoglia “scrittura” – da quella più ortodossamente teatrale a quella più lontana dalla scena («si può recitare tutto a teatro», era solito ripetere, «anche l’elenco del telefono»), ma con una evidente inclinazione per l’eccentricità, l’anomalia o la mostruosità. Dall’altra il limite (fisico ed economico), la barriera, la convenzione, o peggio ancora l’abitudine, il condizionamento – insuperabile – della realtà: quei confini, insomma, che Luca ha sfidato e calpestato e violato per tutta la vita e a cui ogni volta è testardamente tornato nella profonda e radicata convinzione che solo nel vincolo e nella gabbia l’artista trova la sua vera libertà.

Non per nulla, al principio degli anni Novanta, proprio Nella gabbia di Henry James aveva attratto la sua curiosità e ne era nato un prezioso e intelligente divertissement, in cui, relegati i settanta privilegiati spettatori in una tribunetta montata in palcoscenico, al Morlacchi di Perugia, il teatro, per trasparente allegoria, si era fatto claustrofobica scena del liberissimo fluire del racconto. Dalla Kätchen von Heillbron, naufragata sulle acque del lago di Zurigo nel 1972 e presentata finalmente al pubblico in una versione mutila e largamente approssimativa rispetto al disegno originale schizzato con Arnaldo Pomodoro, alle rocambolesche disavventure delle tournée di Orestea (1972-1974) ed Utopia (1975), con recite continuamente bloccate o interrotte per problemi di sicurezza o difficoltà di allestimento; dalla messa in scena mai realizzata di Vida es sueño in un campo di grano nei dintorni di Brescia all’ipotesi degli ultimi anni Novanta di rappresentare il De rerum natura, in un travestimento di Edoardo Sanguineti, fuori dai palcoscenici tradizionali, o ancora ai tentativi ricorrenti, mai arrivati a buon fine, di metter mano alla Commedia della vanità di Canetti o all’Annibale di Grabbe, la teatrografia di Luca è piena, a ben vedere, di aborti o fallimenti o sogni impossibili rimasti nel cassetto, non meno significativi per capire il suo approccio alla scena dei grandi spettacoli che lo hanno reso famoso: la poetica di un puer, certo sempre senex per la profondità della sua cultura e la lucidità del suo sguardo, pronto a sacrificare qualunque cosa (o teatro) e chiunque (a cominciare da se stesso), con una intransigenza quasi talebana, pur di dar forma alla propria prorompente immaginazione.

E in quella irriducibile dialettica tra «siepe» ed «ultimo orizzonte» appena evocata, si celava forse, Leopardi docet, uno dei segreti dell’arte di Ronconi: il suo incessante inseguimento, attraverso le lande drammaturgiche più estreme, dello «spettacolo infinito», di uno spettacolo, cioè, che «per le sue connotazioni spazio-temporali» fosse capace di sottrarsi, in essenza, «all’attenzione totale del pubblico»[2]. Di qui la caratteristica Sehnsucht di tutti gli spettacoli di Luca, pure i più parossisticamente irridenti: l’anelito o la nostalgia, che sempre vi si respirava, di un infinito impossibile. Di qui anche la sua irrisolta e irrisolvibile incertezza tra l’inesausta passione per la scena, luogo deputato di ogni esperienza e conoscenza possibili («il teatro è una forma complessa di conoscenza maturata attraverso l’esperienza» era un altro suo celebre adagio), e, ad un tempo, il disagio del teatro, spazio fisico e mentale endemicamente afflitto da una cronica “inadeguatezza”, o incommensurabilità, a qualsivoglia oggetto sia in esso rappresentato. Difficile, a questo proposito, non pensare a Infinites (2002), labirintica e parzialissima sineddoche, per via tutta allusiva, de l’Infinito, universo e mondi in cui fluttuiamo.

Il pencolare di Luca tra passione e disagio della scena era stato evidente fin dai suoi esordi teatrali, non già in veste di regista, ma di attore, quando Luigi Squarzina, suo maestro in Accademia, nel 1953 lo aveva scelto, appena ventenne, per vestire i panni di Mauro Bartoli nei suoi Tre quarti di luna. Arrivato alla ribalta dopo soli due anni di studi, contro i tre richiesti dagli statuti della scuola, Luca intraprende al fianco di Vittorio Gassman, sotto l’egida della prestigiosa ditta Teatro d’Arte Italiano, una carriera di interprete fortunata che nel volgere di una manciata d’anni lo porta a confrontarsi coi maggiori registi del panorama nazionale: oltre allo stesso Squarzina – riincontrato, dopo Tre quarti di luna, con Lorenzaccio (1954), Tè e simpatia (1955), La Romagnola (1959), La congiura (1960) –, Orazio Costa (Candida, 1954), Giorgio Strehler (Tre quarti di luna, 1955), Giorgio De Lullo (Il diario di Anna Frank, 1957) o Michelangelo Antonioni (Io sono una macchina fotografica, 1958).

Una carriera promettente che lo vede, però, anche continuamente insoddisfatto; perennemente ombroso, taciturno e defilato, nonostante il favore di molti critici. Al fondo del suo stare in scena, infatti, si colgono sempre una riposta e acuta insofferenza nei confronti del teatro come è e una incontenibile voglia di immaginare un possibile teatro futuro. Lo strappo arriva, giusto giusto in capo a dieci anni, quando nel 1963 Luca, vincendo le sue esitazioni, smette le vesti d’attore e firma la sua prima regia per la compagnia Gravina-Occhini-Pani-Ronconi-Volontè: La buona moglie, sintesi delle due commedie goldoniane La putta onorata e La buona moglie, appunto, debuttata a Roma, al Teatro Valle, il 23 dicembre.

Allergico alle consuetudini e al bon ton della società teatrale di quegli anni, per il suo debutto registico Luca rompe con tutte le tradizioni goldoniane conosciute: dalla placida e implacabile comicità di Baseggio, percorsa da brividi inquieti, agli stereotipati omaggi ad un lezioso Settecento di maniera, caratteristici delle messe in scena più sciatte, al realismo arioso e sorprendente di Visconti. Il suo è un Goldoni aspro e nero, che puzza di un’efferata Italietta di provincia.

Il fiasco è colossale e talmente inappellabile da far vacillare la vocazione teatrale del giovane regista. Ma dopo due prove in sordina (Il nemico di se stesso, per il teatro di Ostia Antica, nel 1965 e Commedia degli straccioni, a Portocivitanova Marche, nell’estate del 1966), la rivelazione arriva con i Lunatici il 12 agosto sempre del ’66. A contatto con il ribollente magma drammaturgico di Middleton e Rowley, la melanconia saturnina di Ronconi si incendia. Lo spettacolo non è meno crudo del Goldoni di tre anni prima. La coppia di protagonisti che lo porta in scena, i beniamini del pubblico televisivo Sergio Fantoni e Valentina Fortunato, è ridotta a una sconcia caricatura di se stessa. La recitazione, violentemente fisica, è acida e gridata. I gesti, legnosi ed eccessivi. Ma i tempi sono cambiati e questa volta l’intellighenzia teatrale plaude. Si scomoda Artaud e il suo “teatro della crudeltà”.

A novembre, Luca è già tra i firmatari dell’appello Per un convegno sul nuovo teatro, pubblicato da Franco Quadri sulle pagine di «Sipario» (n. 247), e proprio gran satrapo Franco diventerà negli anni il suo più sagace e lucido esegeta. Lungi dal risolversi in pulsione autodistruttiva, con i Lunatici l’avversione per i limiti del teatro si trasforma in energia rivoluzionaria, propulsiva per nuove sfide: nella marginalità accentratrice del regista, motore immobile della rappresentazione, deus ex machina continuamente presente e radicalmente assente, di fatto ormai diventato nel sistema teatrale italiano il vero depositario ed estensore del patto drammaturgico, a metà degli anni Sessanta, l’inquieto ed estroso Luca scopre dunque il proprio precario e solidissimo ubi consistam.

Tre anni dopo, nel 1969, in tandem con l’imbattibile guastatore letterario Edoardo Sanguineti, in veste di Dramaturg, la più schietta vena creativa di Ronconi trova finalmente modo di sgorgare copiosa con Orlando furioso, la straordinaria “anatomia” teatrale dell’omonimo poema ariostesco che, ab origine, per dirla con Calvino, «si rifiuta di cominciare, e si rifiuta di finire»[3]. In un estremo sforzo di adesione al dettato d’Ariosto, fittamente intrecciato in labirintico entrelacement, la scatola scenica è sottoposta dal regista a una torsione spasmodica che la manda in frantumi e la rappresentazione tracima sull’intero spazio, in un continuum indistinto e simultaneo che abbraccia ugualmente pubblico e attori. La chimera dello spettacolo infinito è alla sua prima rutilante oggettivazione.

In fondo l’intero sterminato catalogo delle regie di Ronconi, nei suoi mille rivoli difficili da ridurre a unità, è figlio del big bang dell’Orlando e della sua trascinante e febbricitante foga utopica generata dalla negazione della misura. Una medesima ambizione enciclopedica a dilagare e a saturare, alla ricerca di un fine e di una fine perpetuamente rinviati, e uno stesso caparbio rigetto delle scelte scontate, dei modelli dati una volta per tutte, pervadono infatti le frequenti e stranianti incursioni di Luca nel teatro antico alla ricerca del «rito perduto»[4] (Orestea, Belgrado, 1972; Die Bakchen, 1973; Die Vögel, 1975; Die Orestie, 1976; Baccanti, Prato, 1978; Pluto, 1985; Medea, 1996; Prometeo incatenato-Baccanti-Rane, 2002), così come i suoi affondi sulla scena contemporanea (Calderón, 1978 e 1993; Besucher, 1989; Davila Roa, 1997; Itaca, 2007; La modestia e Il panico, rispettivamente 2011 e 2013; Lehman Trilogy, 2015); il suo culto per le “favole filosofiche” dei drammaturghi della Mitteleuropa (Al pappagallo verde, 1978; La commedia della seduzione, 1985; L’uomo difficile, 1990; Il professor Bernhardi, 2005; Inventato di sana pianta, ovvero Gli affari del barone Laborde, 2007); la sua impietosa scintigrafia della crisi del dramma borghese nelle sue diverse e morbosamente seducenti facies ippocratiche svarianti da Ibsen (L’anitra selvatica, 1977; John Gabriel Borkman, versione televisiva, 1982; Spettri, 1982; verso «Peer Gynt», esercizi per gli attori, 1995; Nora alla prova da Casa di Bambola, 2010) a Strindberg (Il sogno, 1983 e 2000; Danza macabra, 2014), da Pirandello (Die Reisen vom Berge, 1994; Questa sera si recita a soggetto, 1998; In cerca d’autore. Studio sui «Sei personaggi», 2012) a Cechov (Tre sorelle, 1989; Laboratorio per Un altro gabbiano, 2009) o a O’Neill (Strano interludio, 1990; Il lutto si addice ad Elettra, 1997); la sua sagace critica al realismo (Ignorabimus, 1986) e le sue ritornanti tentazioni mistiche (I dialoghi delle carmelitane, 1988; I fratelli Karamazov, 1998); le sue avvertite e curiose ricognizioni della letteratura (Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, 1996; Memorie di una cameriera, 1996; Quel che sapeva Maisie, 2002; Pornografia, 2013), delle scienze (Infinities, 2002; Biblioetica, dizionario per l’uso, 2006; Lo specchio del diavolo, 2006) o del cinema (Lolita, 2001) alla ricerca di sempre nuove frontiere genuinamente “contemporanee” del teatrale; la sua spontanea inclinazione al kolossal (Gli ultimi giorni dell’umanità, 1990; Progetto domani, 2006) e ancora le sue sistematiche esplorazioni del teatro per musica, ugualmente disposte ai commerci con Rossini (Il barbiere di Siviglia, 1975; Il viaggio a Reims, 1984; La cenerentola, 1998) e alla dimestichezza con Wagner (L’oro del Reno, 1979; La Valchiria, 1980; Sigfrido, 1981; Il crepuscolo degli dei, 1981), allo studio dei classici del repertorio contemporaneo (Globokar, Traumdeutung, 1969; Stockhausen, Samstag aus Licht, 1984; Janácek, Il caso Makropulos, 1993 e Nono, Intollerance. 1960, 2011), così come all’attenta meditazione sul lascito dei grandi maestri del melodramma barocco (Rossi, Orfeo, 1985; Monteverdi, Orfeo e Il ritorno di Ulisse in patria, 1998; Monteverdi, L’incoronazione di Poppea, 2000; Händel, Giulio Cesare in Egitto, 2002).

Ecco: il barocco. Il cangiante universo barocco, regno indiscusso di Circe e del pavone, con le sue ansie di ricapitolazione e di sistematizzazione e le sue stupefacenti e teatralissime Wunderkammer, resta lo spazio d’azione privilegiato di Luca. Un barocco saggiato nelle sue più varie declinazioni: dalle lussureggianti invenzioni elisabettiane, tra Shakespeare (Misura per misura, 1967 e 1992; Riccardo III, 1968; Le marchand de Venise, 1987; Re Lear, 1995; Sogno di una notte di mezza estate, 2008; Il mercante di Venezia, 2009) e colleghi (La tragedia del vendicatore di Tourner, 1970; Una partita a scacchi di Thomas Middleton, 1973; Peccato fosse puttana di John Ford, 2003), alle abissali implosioni di Racine (Fedra, 1984), dalle spastiche visioni dell’antirinascimento italiano (Il candelaio, 1968 e 2001) alle austere pompe dei campioni della controriforma iberica (La vita è sogno, 2000) e su tutto il concettoso teatro di Andreini (La Centaura, 1972 e 2004; Le due commedie in commedia, 1984; Amor nello specchio, 1987 e 2002).

Strano alter ego, Lelio, attore-autore campione “dell’arte”, del regista-drammaturgo Ronconi, sempre così dichiaratamente ostile alle antiche tradizioni dei “comici” italiani in aperto spregio di mode registiche ampiamente diffuse, da Copeau a Mejerchol’d, tutte tese a rivalutare i tesori del professionismo “all’improvviso” del nostro Bel Paese. In fondo la duplice Centaura di Luca, couplet di allestimenti rispettivamente firmati per l’Accademia d’Arte Drammatica di Roma nel 1972 e per il Teatro Stabile di Genova nel 2004, resta uno degli emblemi più limpidi della sua scena “smisurata” ed eccezionale, quando non eccessiva.

Nel grande teatro-mondo di Ronconi, la tragica antitesi leopardiana «siepe»/«orizzonte» non governa, però, le sole scelte drammaturgiche, ma innerva ogni aspetto dell’arte scenica, dalla progettazione degli spazi, continuamente giocata in montaggio sul doppio binario della suprema concentrazione e della massima dilatazione, alla concertazione della recitazione. La prosodia dell’attore italiano – innaturalmente esemplata, secondo Luca, sulla sintassi francese divenuta lingua ufficiale delle nostre ribalte tra Otto e Novecento attraverso la barbara pratica delle grossolane traduzioni a calco imposte dalla dura legge del mercato – è violentata e decostruita. La battuta – aperta e scomposta, fin dall’Orestea di Belgrado, secondo le regole della linguistica strutturalista – diventa oggetto di una vivisezione e di una ricucitura maniacali, nell’intento, ancora una volta impossibile, di far piazza pulita di ogni regola acquisita e risalire sperimentalmente al guizzo germinante del pensiero, al lampo che lega l’immagine concettuale alla parola, al cortocircuito folgorante che traduce l’impulso nervoso nell’inarcarsi della lingua.

E con la stessa furia con cui distrugge e rifonda metrica e sintassi, Luca sovverte e riplasma l’articolazione, sminuzza e reimpasta i fonemi. Guardateli e ascoltateli gli attori che recitano nei suoi spettacoli, tutti intenti a mangiare le parole. Torna subito alla mente Gadda: «E in lingua nostra, che la parola si può stirare, contrarre e metastatare (palude, padule: femminile e maschile) secondo libidine, come la fusse una pasticca tra i denti»[5]. E quella stessa tragica antitesi disciplina anche le pratiche pedagogiche di Ronconi, perché Luca – oltre ad essere per sua stessa ammissione “allievo” di attori, in primis Marisa Fabbri – come i grandi “padri fondatori” del primo Novecento è stato pure un “regista pedagogo”. Nessun sistema, alla sua scuola.

«In oltre trent’anni di attività», aveva infatti spiegato nell’incipit della sua lectio magistralis, pronunciata in occasione del conferimento della laurea ad honorem in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo, presso l’Università di Bologna, nel 1999, «mi è capitato in più di una circostanza di dichiarare di non essere – a differenza di altri miei “colleghi” del passato e del presente – un “regista-teorico”: come spesso mi sono trovato ad osservare nel corso di interviste, dibattiti o altri appuntamenti», argomentava ancora, «il mio lavoro non nasce dall’applicazione di una teoria e nemmeno amo teorizzare “a posteriori” su di esso o sul teatro – ho come l’impressione, infatti, che se lo facessi non sarei più in grado di cimentarmi in quell’operazione sempre nuova che è la messa in scena di un testo»[6]. Nessun “sistema”, dunque, per il Ronconi “maestro”, ma solo – sulle tracce di Goethe – una sana e “delicata empiria”[7].

In mancanza di un paradigma metodologico preordinato da consegnare al discente, il costante sforzo di Luca, nelle sue “lezioni”, era infatti quello di trasmettere all’allievo un ethos: quello stesso “comportamento” appreso decenni prima in Accademia nei corsi del grande Orazio Costa, ossia l’arte di “scartocciare le patate”. Ronconi non insegna le regole della recitazione, ma costringe i giovani a confrontarsi con la loro «siepe», il testo, per liberare le potenzialità infinite dell’interpretazione – l’«ultimo orizzonte» della loro arte –, in un corpo a corpo selvaggio che non esclude nessun colpo basso. In un simile approccio alla didattica smaccatamente laboratoriale – di un laboratorio che è riflesso dell’antica officina – l’aula è soltanto l’altra faccia del palcoscenico e il palcoscenico dell’aula, le lezioni sono prove e le prove sono lezioni, ogni spettacolo è un po’ un saggio e ogni saggio è in fondo uno spettacolo.

Dai primi corsi in Accademia dei tardi anni Sessanta, vivaio dei giovani interpreti dell’Orlando e di Orestea, alla scuola per attori fondata a Torino nel 1991 come palestra di nuovi interpreti per il Teatro Stabile, dai corsi di perfezionamento romani, propedeutici a verso «Peer Gynt» o a Questa sera si recita a soggetto, giù giù fino all’isola felice di Santa Cristina, la scuola/centro teatrale da lui creata nel 2002 insieme a Roberta Carlotto, la pedagogia di Ronconi si salda perfettamente con la sua prassi di metteur en scène e, messa in scena dopo messa in scena, generazioni di attori – dalla già ricordata Marisa Fabbri a Mariangela Melato o a Franco Branciaroli, da Franca Nuti a Massimo De Francovich o ad Annamaria Guarnieri, da Giovanni Crippa a Paolo Pierobon, da Maria Paiato a Francesca Ciocchetti o a Fausto Russo Alesi hanno affinato nel lavoro con Luca i loro mezzi espressivi, talvolta in un gioco di mutuo e fecondissimo scambio tra compagni di strada, talaltra in un durissimo tirocinio condotto sotto la sua vigile sorveglianza, così come generazioni di attori – da Gabriella Zamparini a Mauro Avogadro o a Riccardo Bini, da Massimo Popolizio a Galatea Ranzi, da Manuela Mandracchia a Raffaele Esposito o a Simone Toni – si sono formati proprio sotto la sua guida.

In ultimo, al di là del sacro temenos dell’esperienza estetica, la dialettica «siepe»/«orizzonte» orienta pure la carriera di Ronconi come amministratore della cosa pubblica. Dopo i sogni postsessantotteschi della Cooperativa Teatro Libero, e intercalate alle tante esperienze da regista free lance da lui maturate, la direzione della Biennale Teatro di Venezia (1974-1977), l’avventura esaltante e grottesca del Laboratorio di Progettazione Teatrale di Prato, stritolato dalle faide interne alla sinistra tra PCI e PSI (1976-1979), e a seguire la direzione artistica del Teatro Stabile di Torino (1989-1994) e del Teatro di Roma (1994-1998), fino all’estrema stagione alla guida del Piccolo Teatro di Milano al fianco di Sergio Escobar (1999-2015), sono altrettanti capitoli, spesso scritti a più mani con collaboratori d’eccezione quali Paolo Antonio Radaelli o Nunzi Gioseffi, di una critica serrata alla politica culturale nazionale, segnatamente di ambito teatrale, improntata a un netto rifiuto della ormai sempre più asfittica realtà del modello milanese del “teatro/servizio pubblico” in vista di una appassionata perorazione dell’utopia del “teatro/valore”.

Centrali, poi, nella sua visione del sistema teatrale, la difesa dell’idea di canone nazionale, a dispetto di ogni localismo, esemplata sui grandi modelli d’oltralpe a partire dalla Maison Molière, e la sua incessante ricerca di una “compagnia permanente”, chissà se mai davvero voluta. Beffardo gioco del destino, o del caso, che proprio il giorno delle sue esequie il MiBACT abbia comunicato la lista dei nuovi Teatri Nazionali, figli del decreto cultura di Massimo Bray. A petto di questa strana, appassionata militanza, tutta, però, giocata, si badi, tra le retrovie, senza mai spingersi all’aperta presa di posizione, al braccio di forza con il potere, sorge il legittimo sospetto che l’arcistrutturalista Ronconi, figlio di De Saussure e Roland Barthes, coltivasse nel suo raggelato formalismo, apparentemente alieno da ogni interesse civile, una vigile e fin quasi sovreccitata sensibilità politica: fa riflettere che coi suoi spettacoli – dal Candelaio, diretto per la prima volta nel 1968 mentre soffiavano i venti della contestazione, agli Ultimi giorni dell’umanità, portati in scena alla vigilia dello scoppio della Guerra del Golfo nell’inverno del 1990 – Ronconi non abbia mai mancato un solo vero appuntamento con la storia.

Un ragazzo “favoloso”, una siepe, l’infinito… Il teatro dell’adolescente Luca vive tra scatole o cataste di mobili – la scatola gialla del Pasticciaccio, la scatola bianca della Lehman Trilogy, le piramidi di tavolini e letti e trumeau di Memorie di una cameriera (1997) – e porte. Sinistre intelaiature di porte, vuote come le sbigottite orbite del teschio, o ante abbandonate, gettate alla rinfusa quasi in mucchi di cupi sarcofagi, o porte da ascensore, spalancate e sigillate ermeticamente da silenziose coulisse. Porte come improvvisi varchi nella siepe, aperture intermittenti affacciate sull’infinito, sullo spazio misterioso dell’altrove. Forse il teatro di Luca è anche questo: un vertiginoso e metafisico teatro della morte.

D’altronde l’amico Sanguineti non aveva decretato che «ogni teatro è un teatro anatomico»[8]? E così, nella superficiale e piatta orizzontalità del suo ininterrotto tallonamento dell’infinito, Luca finisce con l’imprimere una violenta svolta verticale alla sua scena. E il suo teatro scientifico, cinematografico, in costante ricerca della sintonia col suo tempo, sempre chino su di un presente-in-procinto-di-farsi-futuro, si ritrova improvvisamente un teatro inattuale, antico quanto l’uomo.

Alla vigilia dello scoppio del secondo conflitto mondiale, Savinio annotava: «Il drammatismo ha bisogno di speciali condizioni mentali – limitazioni mentali, ostacoli mentali; e il nostro tempo ha abolito tutte le limitazioni mentali, ha abbattuto tutte le barriere mentali né traccia rimane più di quell’ineffabile muro contro il quale urtava la mente dell’uomo – e da quell’urto sprizzava il drammatismo come una negra scintilla»[9]. Proprio da queste pagine discende Alcesti di Samuele, il triumphus mortis di Alberto De Chirico, diretto da Ronconi, per il Teatro di Roma, nel 1999.

La sera del 21 febbraio scorso, Luca è uscito di scena, ma non se ne è andato. È ancora lì, col suo consueto passo felpato ed elegante di flâneur del teatro, e scivola, secondo i suoi ben noti tracciati ortogonali, di porta in porta, a raccontarci, attraverso la memoria dei suoi incredibili spettacoli, dei segreti della scena e dei misteri dell’arte rappresentativa. Resta ancora con noi (e ci auguriamo per sempre), come gli algidi e umanissimi titani della Lehman Trilogy, la sua ultima fatica.

Monday Lunch – «Intorno al tavolo / tavolo di cristallo / cristallo lungo quanto tutta la stanza / sulle poltrone nere / sembra il lunch del lunedì / anche se è notte / anzi / fra poco / l’alba. // Dentro la stanza, il silenzio regna. // Sei uomini anziani. / Aspettano la notizia»[10]

 



[1] S. Massini, Lehman Trilogy, Torino, Einaudi, 2014, Parte prima. Tre fratelli, p. 37.

[2] C. Longhi (a cura di), Conversazione con Luca Ronconi (Roma, 10 marzo 1996), in E. Sanguineti, Orlando furioso. Un travestimento ariostesco. Prima rappresentazione: Spoleto, 4 luglio 1969. Regia di Luca Ronconi, Bologna, Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia Romagna – Soprintendenza per i Beni Librari e Documentari / Il Nove, 1996, p. 300.

[3] I. Calvino, La struttura dell’“Orlando” (1974), in Id., Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1991, p. 78.

[4] Cfr. F. Quadri, Il rito perduto. Saggio su Luca Ronconi, Torino, Einaudi, 1973.

[5] C.E. Gadda, Lingua letteraria e lingua dell’uso (1942), in Id., I viaggi la morte (1958); ora in Id., Opere di Carlo Emilio Gadda, vol. III, Saggi giornali favole e altri scritti, I, Milano, Garzanti, 1991, p. 491.

[6] Testo trascritto da un frammento della registrazione video della lectio magistralis tenuta da Ronconi a Bologna in occasione del conferimento della laurea ad honorem in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo il 29 aprile 1999, presso l’Aula Absidale di Santa Lucia, in http://www.almanews.unibo.it/98_99/Ronconi/Mpg/Ro003.mpg (ultimo accesso: 8 aprile 2015).

[7] Cfr. J.W. Goethe, Massime e riflessioni (1983), introduzione di P. Chiarini, a cura di S. Seidel, Milano, TEA, 1988, p. 136 (massima 565).

[8] E. Sanguineti, La philosophie dans le théâtre, in Id., Fanerografie, in Id., Senzatitolo, Milano, Feltrinelli, 1992, ora in Id., Il gatto lupesco. Poesie (1982-2001), ivi, 2002, p. 195.

[9] A. Savinio, Nuova Enciclopedia, Milano, Adelphi, 19914, pp. 122-123 (voce Dramma).

[10] S. Massini, Lehman Trilogy, cit., Parte terza. L’immortale, p. 325.



 

Si rinvia qui alla recensione di Marco Pistoia all'ultima regia di Luca Ronconi, Lehman Trilogy, per il Piccolo Teatro di Milano


Lehman Trilogy, foto di scena di Attilio Marasco e Luigi Laselva

 
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