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Michael Mann tra criminali informatici ed estetica digitale

di Nicola Stefani
  Blackhat
Data di pubblicazione su web 26/03/2015  

A sei anni di distanza da Nemico Pubblico (2009), Michael Mann torna con un film complesso e innovativo che si colloca nello stesso filone sperimentale di cui fanno parte Collateral (2004) e Miami Vice (2006). Attraverso un montaggio di immagini che scorrono a velocità supersonica all’interno di cavi e fibre ottiche, i primi dieci minuti di Blackhat immergono letteralmente lo spettatore in un’atmosfera thriller dal sapore cyber-spionistico. Già il titolo del film – termine tecnico utilizzato nel campo della sicurezza informatica e dai programmatori per indicare un hacker dalle grandi abilità tecniche, ma animato da fini illeciti – introduce al tema portante della narrazione: la criminalità ai tempi della connessione globale.

Come nel più classico dei film d’azione, c’è un pericoloso criminale internazionale che sfida le due superpotenze mondiali, statunitense e cinese, con un attacco informatico che getta nel panico le rispettive squadre di spionaggio, costrette a ingaggiare un geniale hacker in prigione, Nick Hathaway (Chris Hemsworth). Sono due gli episodi che causano l’intervento delle autorità internazionali: un grave incidente nucleare provocato dalla pirateria informatica alla centrale cinese di Chai Wan e un episodio di manipolazione dei dati sui mercati finanziari che, alla Borsa di Chicago, fa volare alle stelle il prezzo della soia. Parte da qui una caccia all’uomo che porterà i protagonisti a viaggiare negli angoli più remoti del globo.



Una scena del film

Gli ostici dialoghi della sceneggiatura di Morgan Davis Fohel rendono ardua la partecipazione dello spettatore, sommerso dagli incomprensibili tecnicismi del gergo informatico (malware, overlay, RAT). Tuttavia l’uso sporco del digitale (ottima la fotografia di Stuart Dryburgh) esalta le svolte narrative di una trama spesso semplicistica e fa dimenticare alcune inverosimiglianze e lungaggini di sceneggiatura nel momento in cui il linguaggio elettronico e informatico diventa la forma stessa del film. In questo senso l’estetica adottata da Mann, formata da dettagli di stringhe di codice o dai pixel in evidenza degli schermi degli smartphones, dei computer o delle immagini della videosorveglianza, rende coerenti e giustifica gli snodi più complicati della storia.

La tecnologia digitale viene sfruttata al meglio nelle sequenze nervose di inseguimenti e sparatorie, dove si raggiunge una consapevolezza espressiva raramente sperimentata al cinema, grazie anche al talento registico e di “genere” di Mann. Il contributo musicale dell’ingegnere del suono Atticus Ross, allo stesso tempo classico e moderno, scorre omogeneo per tutto il film, tra splendide scene ambientate all’ombra dei cieli notturni di Hong Kong (importante e decisiva a livello produttivo la presenza dei divi cinesi Tang Wei e Leehom Wang) e sequenze d’atmosfera con i paesaggi esotici della Malesia e dell’Indonesia.



Una scena del film

Le ambientazioni orientali sono affrontate in tutta la loro potenzialità, non solo come necessari punti di raccordo tra le scene decisive d’azione e quelle di trasferimento. La macchina da presa si muove tra gli spazi e i luoghi trasfigurandoli, evitando le facili rappresentazioni da cartolina. Il metodo di Mann prevede che ogni occasione sia una possibilità per dilatare lo sguardo, privilegiando soluzioni di estrema difficoltà, a discapito della fluidità narrativa. L’occhio del regista indugia specialmente nei dettagli sottolineati dalle luci fredde della notte, come ad esempio nelle sequenze ambientate nei mercati e tra i container del porto di Hong Kong, o si sofferma sui particolari illuminati dai neon artificiali durante la fuga all’interno della metropolitana di Jakarta. Sempre all’insegna della notte si delinea lo scontro finale con l’hacker fantasma sullo sfondo di una processione festosa dove i protagonisti si inseguono con il rischio di perdersi tra i drappi rossi di una folla indistinta, aiutati solamente dalla flebile luce delle candele. Una scena molto suggestiva in cui non solo il supporto della tecnologia digitale, ma anche il sapiente ricorso a speciali obiettivi Zeiss permette una profonda penetrazione dell’oscurità.

Come e più dei suoi film precedenti, il punto di forza di quest’ennesima scommessa vinta di Mann è l’equilibrio tra le lunghe sequenze di esposizione e le esplosioni improvvise di romanticismo o di violenza, che rendono l’opera tesa e mai scontata. Rimarrà invece deluso chi cercherà di ritrovare nel film l’alta tragicità raggiunta da Mann in capolavori come Heat - la sfida e L’ultimo dei Mohicani. Prevalgono, in fondo, in questa pellicola, il fascino del regista per la tecnica digitale come possibilità di racconto e la riflessione su come i più moderni mezzi di comunicazione possano influenzare il linguaggio cinematografico.




Blackhat
cast cast & credits
 


la locandina del film



 
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