In attesa di tornare su Luca Ronconi, pubblichiamo unintervista da lui rilasciata nel 2003, alla nostra rivista, nel suo ufficio al Piccolo Teatro di Milano.
Il teatro allaperto offre maggiore o minore libertà dazione? Vi possono essere strutture preesistenti che costituiscono altrettanti vincoli allallestimento scenico…
Non si può generalizzare. Dipende dallo spazio. Ci possono essere degli spazi che sono estremamente vincolanti e degli altri che permettono una maggiore libertà. Per esempio, nel caso dellAmor nello specchio da un punto di vista topografico lo spazio era estremamente vincolante. Per dare chiarezza era necessario seguire percorsi obbligati. Siccome, però, il luogo – non lo spazio –, lambiente sembrava estremamente pertinente al carattere che volevamo dare al testo, ecco che allora proprio i vincoli si rivelavano molto utili; proprio perché non sempre un eccesso di libertà aiuta la chiarezza della comunicazione.
La scelta di corso Ercole dEste è stata anche dettata dalla volontà di avvicinarsi allidea di Commedia dellArte come forma spettacolare in parte nata “sulla strada”?
Assolutamente no. Anzi, nella realizzazione scenica dello spettacolo non cera nessun riferimento alla Commedia dellArte, così come non cera nessun riferimento a un luogo urbano. Gli interventi scenografici che erano stati fatti nello spazio erano stati eseguiti proprio per togliergli qualsiasi carattere concreto e dargli unastrazione maggiore.
Non solo lespediente di lastricare il corso con gli specchi con il facile rimando al titolo della commedia, ma un progetto scenico più ampio di cui questo è laspetto più evidente ma, in fondo, il meno significativo. È stato così?
Sì, esattamente.
A proposito, invece, delle sue precedenti messe in scena di commedie di Andreini realizzate, a differenza di questultimo spettacolo, in spazi “chiusi” [ndr. La Centaura, saggio dellAccademia nazionale darte drammatica, Roma, Cinecittà, 29 aprile 1972; Due commedie in commedia, La Biennale-XXXII Festival internazionale del teatro, Venezia, teatro Malibran, 18 ottobre 1984; Amor nello specchio, saggio dellAccademia nazionale darte drammatica, Roma, teatro dei Documenti, 19 giugno 1987]. Qual è lo “spazio” di Andreini? Come si concretizza visivamente la sua drammaturgia?
Ogni testo, o meglio ancora ogni particolare interpretazione di qualsiasi testo, presuppone o ricerca un suo spazio precipuo, non generico. Mi è capitato di fare tutte e tre le opere di Andreini in situazioni anomale rispetto al palcoscenico. Effettivamente non so quanto Andreini possa portare lattenzione del pubblico allinterno del palcoscenico secondo le abitudini del nostro pubblico.
Parlando ancora di luoghi allaperto, il suo spettacolo forse più famoso, lOrlando furioso, fu riallestito in piazze diverse: con quali cambiamenti e operati secondo quale logica?
Originariamente lOrlando furioso è stato realizzato in uno spazio non teatrale ma al chiuso, la chiesa di san Nicolò a Spoleto. Poi dopo è stato portato in varie piazze e devo anche dire che di volta in volta a seconda degli spazi in cui andava pur rimanendo la struttura la stessa – si trattava di una struttura molto forte –, alla sua invariabilità corrispondeva inevitabilmente una variazione del carattere. Lo spettacolo fatto in piazza sembrava uno spettacolo popolare. Lo spettacolo comè nato era tuttaltro che uno spettacolo popolare.
E il cambiamento di carattere… ?
Il cambiamento di carattere era determinato solamente dallo spostamento perché la struttura dello spettacolo, ripeto, era molto forte e molto rigida e non è mai cambiata.
Era dunque una questione di percezione?
Indubbiamente. Uno spazio differente in qualche modo determina una diversa percezione dello spettacolo da parte del pubblico, qualunque sia il carattere originario dello spettacolo.
E questo non diminuisce in qualche misura il controllo del regista sul proprio spettacolo?
No, ma mi permette di fare unipotesi sulle diverse possibilità di percezione da parte del pubblico e dunque qualcosa imparo. Anzi è sicuramente un elemento fondante di qualsiasi tipo di drammaturgia.
Continuando la nostra riflessione sugli spazi allaperto, vorrei parlare del teatro greco di Siracusa. Come si tratta uno spazio preesistente, con caratteristiche tanto particolari e con un sostrato storico e culturale talmente ricco? Trasformare, occultandone la storia, oppure sottolineare ed evidenziare la tradizione che lo pervade?
Il teatro di Siracusa è una specie di ricordo, una memoria del teatro greco perché strutturalmente di esso non ha più assolutamente nulla tranne la gradinata. Neanche le dimensioni, perché il teatro
greco era infinitamente più piccolo di quanto lo sia oggi. Il teatro di Siracusa può essere utilizzato come uno spazio tutto sommato molto generico.
E non si sente leredità del passato?
Leredità la senti nella memoria, nelle aspettative del pubblico. La senti per esempio molto più nel clima; la senti molto più nella luce invece che nello spazio, come dire topografico o architettonico
propriamente detto. Quello architettonico praticamente non esiste.
Si tratta dunque di uno spazio molto malleabile.
Sì, sicuramente.
Parlando ancora di spazi preesistenti in possesso però di una storia rilevante e forse vincolante, mi viene in mente larcheologia industriale. Quali problemi pongono spazi quali il Lingotto o la Bovisa in cui lei ha allestito due spettacoli come Gli ultimi giorni dellumanità nel 1990 e, nella primavera del 2002, Infinities?
Veramente certi spazi i problemi più che porli li risolvono.
E non pongono nessun vincolo?
Premetto che i vincoli sono provvidenziali, perché cè molta più libertà quando esistono dei vincoli forti che non quando cè una totale discrezionalità e possibilità di agire. Indubbiamente per un tipo di drammaturgia come quella di Infinities, che programmaticamente salta alcune figure, funzioni, strutture della drammaturgia tradizionale come il dialogo, il personaggio, il racconto, ecc. ecc., un luogo fatto per far risaltare queste strutture e queste figure è improprio. Quindi ritengo che per qualsiasi figura esista uno spazio specifico – ma questo lo dico a proposito di Barrow come potrei dirlo a proposito di Beckett. Non mi dice niente a vederlo su un palcoscenico, anche se dal punto di vista letterario penso sia un grande autore e penso che il luogo ideale di rappresentazione di Beckett non sia affatto il vuoto del palcoscenico.
Lo penso anchio. Credo sia sempre stato sottovalutato il lato “comico” di Beckett…
Certo. Quindi, secondo me ogni tipo di drammaturgia presuppone il proprio spazio ideale. Ripeto, il palcoscenico beckettiano è sempre stato una specie di passepartout ma in qualche modo si è costituito più per luditorio che per lopera. Un luogo di comodo per gli spettatori.
Tornando a Infinities, mi piacerebbe riflettere sulla posizione del pubblico: esso è spodestato del suo spazio canonico, la platea, e magari costretto a stringersi in strette panche oppure, addirittura, a stare in piedi. Lo spazio disorienta e smuove dalla passività. Gli spettatori sono costretti a muoversi e con le innumerevoli combinazioni possibili derivanti dalla posizione da essi scelta concorrono alla stessa definizione dello spazio.
Io il pubblico non lo costringo. In Infinities specialmente. Anzi, il pubblico una volta seduto in un posto potrebbe anche rimanere lì. Essendo Infinities una cosa sul tempo, sembrerebbe una specie
di tempo ciclico, per cui lo spettatore vedrebbe la stessa cosa fatta in un modo diverso, quindi con delle funzioni diverse e anche dei significati diversi. Ecco, abbiamo parlato di Beckett; se il pubblico si mettesse nelle condizioni di un personaggio beckettiano, ossia di non muoversi mai, avrebbe di fronte un dramma di Beckett in cui le cose vengono continuamente ripetute sia pure in forma diversa.
Forse è sbagliato il verbo “costringere” o forse no, nel senso che lei costringe il pubblico a crearsi un proprio percorso allinterno dello spazio scenico…
Anzi, mi piace. E questo mi piace perfino quando faccio uno spettacolo in teatro. Lobiettivo non è quello di prendere il pubblico per la cavezza e obbligarlo a seguire quello che voglio io ma di
costruire dei fatti teatrali per cui lo spettatore possa essere abbastanza libero di rimontarseli nella mente, nella fantasia, mentre si svolgono, in quello stesso tempo.
Per raggiungere questo obiettivo lei ricorre a espedienti scenografici? Mi viene in mente il costante utilizzo di pedane mobili nei suoi spettacoli…
Sì, probabilmente sì. Secondo me, sono molto portato a cercare di strutturare in palcoscenico quella attitudine alla discontinuità che cè nella percezione dello spettatore. Per fare un esempio, sono
straconvinto che, oltre che presuntuoso, sia anche illusorio pretendere unattenzione costante da parte dello spettatore.
È impossibile, credo…
È impossibile, però la maggior parte degli spettacoli presuppone un rischio. Quello che adombra è la duplicità di unopera che di fronte a sé ha lobbligo di essere coerente ma rispetto alla percezione deve avere anche la civiltà di poter essere frammentaria.
Dunque, come lei crea il “suo” spazio così il pubblico può ricreare per se stesso quel medesimo spazio, rimontandolo…
Certo. Tuttavia, questo è possibile soprattutto in uno spazio non così coercitivo come è invece quello del teatro “allitaliana” – che poi deriva dalla tragédie-classique francese, per cui presuppone quasi ostinatamente una focalizzazione, una messa a fuoco attraverso larco scenico. Il teatro “allitaliana” già nelle sue forme, in cui molto spesso i due lati, nel ferro di cavallo, sono privilegiati rispetto al palcoscenico perché è uno spazio nato soprattutto come un luogo di incontro per gli spettatori, esplicita questa specie di contraddizione nettissima che è destinata a venire sempre più fuori man mano che cambia la necessità sociale del teatro.
Lei però si è trovato spesso a dover lavorare in un teatro “allitaliana”…
Sì, sì, fa parte del mio lavoro e lo faccio, però, ripeto, quasi sempre faccio fatica ad accettare le regole del palcoscenico, proprio perché mi sembrano delle regole oramai, non direi logore, ma che soffrono di unimprecisione allorigine.
E nel caso delle regie di spettacoli lirici, nella maggior parte dei casi realizzati in teatri “allitaliana”?
Ma la regia lirica è tuttaltro. Fino a quando – speriamo presto – non verrà in qualche modo codificato un diverso modo di intendere il teatro musicale – dico codificato perché solo attraverso le codificazioni si può arrivare a una diversa drammaturgia dello spazio, che non sia precaria, che non sia occasionale, una volta e via – non cambierà neanche il suo spazio precipuo. Daltra parte ritengo che in buona parte è il vincolo dato da altri spazi lelemento capace di determinare una diversa drammaturgia.
Lei ha messo in scena quattro drammi di Ibsen – Lanitra selvatica, il Borkman, Spettri e scene tratte dal Peer Gynt. Mi interessava saperne di più proprio per le peculiarità della drammaturgia del norvegese che, semplificando, potremmo definire “psicologica” e dunque assai lontana dalla poetica ronconiana che rifugge ogni psicologismo. Il particolare trattamento dello spazio poteva essere un mezzo per superare questa presunta incompatibilità?
Ogni testo teatrale, che è scritto per essere rappresentato, è scritto per essere rappresentato secondo le convenzioni teatrali del proprio tempo. Ma molti testi presentano una sorta di “nocciolo” che,
viceversa, eccede le convenzioni teatrali del proprio tempo. Un classico è soprattutto questo. Ora un testo di Ibsen è provvidenzialmente ambiguo, e qualche volta confuso, fra una volontà di naturalismo e un elemento assolutamente fantastico. Cè sempre, in tutto il suo teatro, un conflitto fra langustia delle possibilità di rappresentazione e limpulso verso unuscita. Il personaggio tende sempre a evadere.
A partire da Nora…
Sì. Cè nel teatro di Ibsen unidentificazione fra palcoscenico e Casa di bambola. Il personaggio di Nora, ma anche il personaggio di Peer, come Borkman, ecc., cerca continuamente di uscire e di evadere dalla sua realtà. Come capita per esempio nellAnitra selvatica, si tratta di ritrovare una coerenza nella drammaturgia “sconocchiando”, scardinando completamente i canoni della rappresentazione tradizionale.
E realizzando così il desiderio nascosto di Ibsen di uscire dal palcoscenico tradizionale…
In qualche modo sì.
Lei ha lavorato spesso con architetti: quali sono state le caratteristiche di queste collaborazioni? Si è forse verificato un prevalere del regista sullarchitetto, oppure il contrario?
Non saprei dire. Generalmente quando ho lavorato o con degli architetti o anche con degli artisti, ho chiesto loro la libertà di utilizzo dei loro materiali. Ossia, più che la definizione di una continuità stilistica – a un architetto non chiedi di fare lo scenografo tanto lo so che non è capace di farlo –posso chiedergli di utilizzare in senso scenografico alcuni dei suoi elaborati preesistenti.
Non ha mai chiesto nulla di specifico per un particolare spettacolo?
Mai nulla di specifico.
Prendiamo come esempio il nuovo auditorium di Roma progettato da Renzo Piano: quanto un architetto di oggi può aiutare il teatro a sostituire con nuove convenzioni quelle vecchie? Ed è la persona adatta?
Lauditorium di Piano lho visto quando era ancora in cantiere e dentro non ci sono mai entrato, quindi non posso dare un giudizio. Secondo me la funzionalità è un elemento fondamentale. Per un auditorium, come per un teatro, un esito infelice è dato dallacustica cattiva e dalla visibilità mediocre. Un teatro è legato a un modello di drammaturgia. Molto spesso, invece, tende a diventare un monumento o a far parte della storia di un architetto. Prioritariamente, invece, ci devono essere dei canoni drammaturgici tali da imporre delle regole, altrimenti si hanno risultati come, per esempio, il teatro Regio di Torino, che può anche essere un belloggetto ma è un assurdo teatro. Dal punto di vista architettonico non è una cosa spregevole, anzi è una cosa interessante.
Ma risulta interessante per la storia dellarchitettura, non per quella del teatro…
Questo perché quellaccordo fra committenza, società e artisti che è in qualche modo il patto fondante della drammaturgia in questo momento non cè. E questo rende assolutamente improbabile la possibilità di unarchitettura teatrale che in qualche modo superi la pura e mera funzionalità – lacustica e la visibilità.
Non è possibile nulla di più?
In questo momento non è possibile niente di più. Se, facciamo conto, un modello tipo quello dellOrlando furioso oppure il più recente Infinities o quello de Gli ultimi giorni dellumanità – tre spettacoli che in qualche modo hanno inciso notevolmente nella storia scenica contemporanea – diventa il modello dominante per il prossimo decennio, ne consegue che la molteplicità degli spazi diviene un elemento fondante dellarchitettura in quanto lo è della drammaturgia. E la risoluzione di problemi di sicurezza, praticabilità, insonorizzazione, visibilità, ecc., verrà come conseguenza secondaria.
Quegli spettacoli forse sono già diventati modelli, dato il frequente riutilizzo di spazi industriali, malgrado la sensazione sia quella che si tratti soprattutto di una moda senza sostanza concreta…
Infatti bisogna stare attenti, perché io sto parlando di necessità drammaturgiche e non di contenitori. Nel momento in cui il teatro diventa un contenitore perde la sua funzione, poiché deve sempre essere in rapporto a una drammaturgia. Un esempio riguardante il teatro musicale: fare unopera barocca alla Scala è un inferno, non viene mai bene, perché è uno spazio costruito per un altro tipo di spettacolo.
I molti allestimenti in aree industriali fanno tuttavia pensare che lesigenza di nuovi spazi sia particolarmente sentita…
La necessità di altri spazi è sentita ma sarà sempre una fuga senza approdo se non cambieranno le esigenze della drammaturgia. Mi è capitato molto spesso di dire che la mia insofferenza verso alcune forme di teatro belle, necessarie e importanti nasce non da una loro valutazione negativa ma dagli equivoci che creano. Per esempio, abbiamo parlato di Beckett: ecco che un teatro che in realtà nasce per creare dei problemi diventa invece il vessillo dei teatranti che i problemi non se li vogliono porre, perché si può fare dappertutto, ecc. ecc. Questa è una trivializzazione di un modello che era nato in opposizione a un modello già logoro. Al contrario, alcuni spettacoli che ho fatto e in particolare i tre che ho già citato, hanno dimostrato di essere un modo di fare teatro estremamente reciproco, diretto e in cui il pubblico di oggi si riconosce. Ma, per motivi molto precisi, stentano a diventare dei modelli canonici. Non sono suscettibili non dico della, ma di una canonizzazione. Ciò per una ragione molto semplice: è che Infinities incide perché chi scrive sa, conosce la materia di cui sta scrivendo. Scrive di ciò di cui sa. Non è un teatro della scienza, ma un teatro della sapienza, ossia lautore non è un drammaturgo ma sa di che cosa scrive. Non si è andato a documentare per scrivere di scienza. La stessa cosa vale per Karl Kraus che scrive di ciò che sa. È un concetto di autore drammatico che non riguarda la letteratura. Sarebbe possibile fare un grande teatro di letteratura – Beckett lo è – ma resterebbe in primo luogo letteratura.
a cura di Laura Bevione
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