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Lo smarrimento sociale della Russia contemporanea

di Sara Mamone
  Under electric clouds
Data di pubblicazione su web 14/02/2015  

Alexei German jr è un regista tormentato da un rovello di immani proporzioni che sostiene la maggior parte della sua opera, ossia il destino del suo immenso paese, la Russia, dopo gli anni della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Dove va l’ex potenza mondiale? Sta ricostruendo, dopo il tracollo delle vecchie ideologie, una fisionomia e un’identità nuove? Cosa sta facendo delle nuove libertà (sempre che ci siano)?

Il regista si pone decisamente tra coloro che non lo sanno e con amore e modestia sta dalla parte degli uomini, creature sbandate e fragili, in un universo di cui non sanno più leggere i riferimenti. Premiato a Venezia nel 2008 con il leone d’argento per il film Bumazhny soldat (Paper soldier), che ambientava lo sbandamento dei suoi personaggi nella celebre stazione spaziale di Baikonur, luogo che ha visto le glorie della potenza tecnologica sovietica, il regista prosegue la sua analisi sullo smarrimento di un corpo sociale che non ha più coesione e dove gli individui non riescono a trovare una personale collocazione.

Una scena del film
Una scena del film

La frammentazione è resa attraverso una pluralità di piccole storie che ora si intrecciano, ora si allontanano, in un movimento che riproduce efficacemente l’ondivaga casualità di una società senza direzione. Sullo sfondo di un enorme edificio incompiuto destinato a dare prosperità alla città, ma in realtà immagine fisica della metafora dell’intero paese, vagano figure che un tempo avevano avuto una collocazione sociale precisa (lo studioso ora ridotto a fare da guida ai turisti vestito come un domatore, l’operaio kirghiso, l’architetto), fanciulle in fiore in cerca di promozioni di vario tipo, bambini abbandonati da genitori fuggiti in cerca di un differente futuro, lavoratori immigrati e senza più lavoro.

Una scena del film
Una scena del film

Quel che conta non è evidentemente la casistica ma quell’angoscioso senso di vuoto che, nella magnifica e apocalittica fotografia di Evgeniy Privin e Sergey Mikhalchuk, si trasmette allo spettatore e pian piano si insinua nella sua coscienza. Senza giudizi, senza ideologie. Non c’è davvero più nulla, e le statue dei dittatori del regime sovietico sono anch’esse un monito del superamento della stagione degli entusiasmi distruttivi. Resta solo il silenzio, e una lattiginosa luce all’orizzonte, che non pare presaga di nuove aurore. 



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La locandina
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