Goethe non si addice ai francesi. I patiti del Faust di Gounod e del Werther di Massenet forse grideranno alleresia: ma il permanere dellappeal – oggi, conveniamone, un po appannato – di queste opere sta proprio nella loro drammaturgia semplificata e nella riconduzione del “problema centrale” al prevedibile versante amoroso (la stessa ricetta, per inciso, Gounod lapplicherà quando, con Roméo et Juliette, dovrà passare da Goethe a Shakespeare), oltre che nellampio ricorso al décor. In altre parole, quanto di più lontano ci possa essere dallestetica del vate di Weimar.
Non sarà dunque un caso se, per prendere le distanze dal modello goethiano, lopera di Gounod in Germania sia stata spesso reintitolata Margarethe: e daltronde, ammesso che i minuti di canto siano un termometro per stilare una graduatoria nelle dramatis personae, qui Margherita e Mefistofele paiono assumere un peso maggiore del protagonista eponimo. Questa nuova messinscena dellOpera di Lipsia coprodotta con Bolzano (e giunta nella città altoatesina con la locale Orchestra Haydn, ma con il coro del teatro sassone) sembra invece prendere molto sul serio Gounod e i suoi librettisti: il regista Michiel Dijkema e il Dramaturg Christian Geltinger singegnano a recuperare, almeno in parte, la complessità della fonte letteraria, sovrastrutturando i personaggi (a cominciare da un “allargamento psicologico” del defilato ruolo di Siebel) e calandoli allinterno di una lettura anche politica. Così come, a sua volta, la concertazione di Anthony Bramall raddoppia le ambizioni, alla ricerca di un profilo alto della partitura – nella strumentazione come nelle pieghe armoniche – che contrasta con la serena aproblematicità di questopera, la sua spettacolarità senza complessi culturali, il suo gusto tuttaltro che episodico per il divertissement.
Un momento dello spettacolo. Foto di Luca Meneghei.
La messinscena riconduce il lavoro di Gounod allepoca della sua composizione, quasi che Faust fosse una cartina di tornasole della Francia di quegli anni: la Francia, cioè, del Secondo Impero, autoritaria e industrializzata, colonialista e guerrafondaia. Svuotato da ogni tensione scientifica (cosa cè daltronde di più antiscientifico della pretesa di ringiovanire?), il vecchio dottor Faust diventa – in tale contesto – un grottesco alchimista fuori della Storia e del progresso tecnico, con un sospetto di negromanzia che rende niente affatto imprevedibile lapparizione di Mefistofele nel suo laboratorio; mentre le parate militari e il personaggio di Valentine assumono connotati di funerea violenza e inconsapevole carne da macello, lasciando presagire quanto accadrà di lì a qualche anno con la disfatta di Sedan e la fine delle ambizioni imperialiste di Napoleone III (ma già la celebre messinscena di Jorge Lavelli, negli anni Settanta, insisteva su questo aspetto).
Lo spettacolo calca senza inibizioni il pedale del grottesco, talvolta perfino in senso espressionista, con Mefistofele che – direttamente per propria mano o soltanto con il suo pilotaggio degli eventi – miete vittime di continuo: anche Marthe e Wagner faranno una brutta fine, nella regia di Dijkema; per tacere di Siebel (qui lo ritroveremo nellultimo atto come mutilato di guerra) che, non reggendo alla condanna di Margherita, si spara una pistolettata alla tempia. Rossovestito dal cilindro alle scarpe come un imbonitore fresco di Exposition universelle parigina, capace di portare a combustione – spesso in via preterintenzionale – tutto ciò che sfiora (e la cosa è foriera di qualche gag gustosa), Mefistofele è comunque il vero protagonista di questa messinscena: ora svagato e boulevardier quasi fosse uscito da unopéra-comique di Offenbach, ora sinistro e crudele al punto giusto; e il crocefisso usato come attaccapanni, con il cilindro adagiato sulla corona di spine che circonda la testa di Cristo, resta unimmagine forte e di ottimo teatro.
Altre soluzioni appaiono invece più forzate: convince poco Siebel promosso a nevrotico coprotagonista, ed è un po troppo sopra le righe Marthe ritratta come una befana artritica e occhialuta, ma scollacciata e con gli ormoni a pieno regime. Né convince del tutto (si tratta però di peccato veniale, data la fondamentale aleatorietà architettonica dellopera di Gounod) il rimontaggio operato su libretto e partitura: come la canzone del Re di Thulé spostata dalla scena del giardino a quella della prigione, o il recupero, in sottofinale, di unaria di Siebel espunta dallo stesso compositore e ripescata – si direbbe – al solo scopo di creare un presupposto al suicidio che la regia impone al personaggio. Ma soprattutto non persuade la rinuncia al lieto fine (molto relativo, certo) della vicenda: fatta salva la redenzione di Margherita, qui le fiamme dellinferno continuano a bruciare invincibili; ed è un tentativo di smussare ledulcorazione di Gounod che non ha ragione di essere, perché quello gounodiano – piaccia o no – resta un Faust edulcorato.
Un momento dello spettacolo. Foto di Luca Meneghei.
Bramall, dal podio, sposa in pieno questa ricerca di spessore drammatico. Lo si nota sin dal Preludio: molto compenetrato nellaustero contrappunto iniziale, ma meno sciolto nel cantabile melodismo del prosieguo. Daltronde un po tutti i passaggi vivaci, rapinosi o svagati (e sono molti) della partitura vengono onorati con piglio piuttosto arcigno, sotto il pedale di una timbrica densa e tenebrosa che il direttore mette bene a frutto nelle scene della chiesa e della prigione, ma altrove appaiono un po penalizzanti; e laddove la regia gioca invece una carta quasi operettistica, come in certe controscene parodistiche dove agiscono i soldati con la loro gloire e il loro beau geste, Bramall tenta di adeguarsi cercando in orchestra dei toni vagamente offenbachiani: ma è un Offenbach, il suo, piuttosto greve – e soprattutto antiumoristico.
Il cast, anchesso proveniente da Lipsia, appare alterno. Lanello più debole è il giovane, e ancora molto acerbo, baritono Jonathan Michie: voce di qualità naturali in sé apprezzabili, dimidiate però da diseguaglianze di emissione e un pilotaggio dei fiati quanto meno avventuroso (mentre proprio sulle ampie campate e sul “legato” si basa la scrittura vocale di Valentine), che lo porta a spezzettare molte frasi, talvolta pregiudicando la chiarezza del dettato musicale. Dispiace però sottolineare come, dopo di lui, la falla maggiore sia proprio il guest singer italiano, ovvero il tenore Mario Zeffiri (laltro nome italiano in locandina, Matteo Ferrara, è invece caratterista di classe e cesella a dovere il personaggino di Wagner): incapace di rendere palpabile, nei colori come nel fraseggio, il transito dal Faust anziano del primo atto a quello giovane del resto dellopera; con unemissione che suona compressa e schiacciata sia quando il ruolo veleggia su basse tessiture (ancora il primo atto) sia quando il canto deve espandersi su ben altre altimetrie; e con il Do sopracuto di Salut, demeure – da emettersi in falsettone, secondo la prassi francese – risolto con unitalica arte di arrangiarsi che è forse proprio quanto lo ha reso simpatico al pubblico di Lipsia.
Trionfatore della serata è stato comunque il Méphistophélès di Mark Schnaible: anche lui – coerentemente con la direzione musicale e la regia – in sospetto di sovradimensionamento sia canoro sia stilistico (la complessione vocale è quella del basso-baritono wagneriano e, diavolo per diavolo, suono e accento rimandano più a Kaspar del Freischütz che a Mefistofele), ma ragguardevolissimo quanto a solidità di emissione e gioco scenico. E pure a Marika Schönberg – più intensa che estatica, più matronale che verginale – i panni di Marguerite stanno un po stretti, oltretutto con la differenza, rispetto a Schnaible, di un dominio tecnico meno saldo (difetta quellelasticità vocale per padroneggiare con scioltezza i passi di agilità): ma si resta ammirati davanti a una così viva personalità artistica, con unespressività delle dinamiche capace di conferire idea di drammaticità anche nei “pianissimi” e un sentore di lirismo pure nei “fortissimi”.
In scala minore, stessi pregi e difetti si ritrovano nel canto metallico ma eloquente di Kathrin Göring: molto compenetrata nella rilettura che Dijkema propone del personaggio di Siebel, e ottima pure come attrice nel delineare le angosce di questa figura en travesti. La migliore in campo è però Karin Lovelius, che, nonostante gli eccessi caricaturali voluti dalla regia, imprime a Marthe uno spessore inconsueto e risolto tutto nel canto. Potrà sembrare limitativo che lideale Palma doro spetti a un ruolo minore. Ma è il bello delle compagnie stabili, come appunto nel caso di Lipsia: dove cantanti di primo piano non si fanno scrupoli, se serve, ad affrontare sapidi comprimariati.
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