drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

Chi ci vieta di amare?

di Paolo Patrizi
  Das Liebesverbot
Data di pubblicazione su web 08/01/2015  

 

«Atroce, abominevole, nauseante», se ci vogliamo attenere al drastico giudizio dell’autore, che non sempre è il miglior giudice di se stesso (Verdi ebbe a dire della sua Alzira «Quella è proprio brutta!»), Das Liebesverbot è il frutto acerbo ma tutt’altro che trascurabile di un Wagner ventitreenne, al suo secondo esperimento operistico e alla prima opera rappresentata: Die Feen, scritta poco prima, avrebbe conosciuto il palcoscenico solo dopo la morte del compositore. Ma se Le fate, incanalandosi nei binari della Zauberoper, rientravano in un codice radicato nell’humus musicale tedesco, questo Divieto d’amare gioca invece la carta epigonico-parodistica: il giovane Richard, qui, tenta di replicare gli stilemi drammaturgici e l’inesausto melodizzare dell’opera buffa italiana, sia pure filtrata da abbondanti influssi francesi (Auber in primis).

 

Poi, certo, anche poco più che ventenne Wagner resta sempre un autore non freschissimo: la tendenza al gigantismo si fa strada pure in questo esperimento buffo (non a caso la dicitura del libretto è «Grande opera comica»); le velleità didascaliche e dimostrative (siciliani che assecondano gioiosamente gli impulsi della natura versus tedeschi che severamente li respingono) appesantiscono il respiro farsesco; ed è quasi superfluo aggiungere che del profondissimo spessore umano dell’altro, e assai più tardo, Wagner in chiave di commedia – quello dei Maestri cantori – qui è difficile scorgere le tracce. Anche la cornice etica e sociale della fonte shakespeariana è abbastanza latitante (alla radice del Divieto d’amare c’è Misura per misura), mentre restano i pregi strettamente musicali: la solidità architettonica dell’ouverture, la bellezza trasognata ma innervata da palpiti drammatici del duetto tra i soprani, la capacità di giocare con le fisionomie vocali dei personaggi in funzione di specularità drammatica (il tenore eroico e quello più liricizzante per i due amici protagonisti, il soprano lirico e il Falcon per delineare la dialettica della solidarietà femminile).

 


Un momento dello spettacolo. Foto di Fabio Parenzan

 

L’italianità cui l’opera aspirava (anche nel testo poetico: il Wagner librettista qui preferisce ricorrere allo strumento tradizionale della rima piuttosto che a quello, poi per lui prediletto, dell’allitterazione) resta comunque relativa. I momenti farseschi sono assai più “grassi” che realmente scoppiettanti: il personaggio di Brighella sembra una filiazione dell’Hanswurst teutonico piuttosto che un lascito della nostra commedia dell’arte, e pure la sua scrittura da “basso profondo comico” – che occhieggia all’Osmin mozartiano e anticipa il Barone Ochs del Rosenkavalier – ha poco da spartire con il buffo all’italiana, veleggiante verso lidi più baritonali. D’altronde, se l’idea di Wagner era celebrare la “naturalità” del sud a fronte della rigidità tedesca, alla resa dei conti l’impressione è opposta: il personaggio più affascinante resta quello del cattivo e represso Friedrich, e la sua paura di lasciarsi andare, con l’attrazione-repulsione verso il mondo dei sensi che ne è l’inevitabile corollario, sembra anticipare – sottopelle, beninteso – macerazioni e alienazioni di certi grandi personaggi wagneriani a venire.

 

L’allestimento del regista Aron Stiehl (una coproduzione tra Lipsia e Bayreuth, ora approdata nella wagneriana Trieste) accentua tale sensazione. Friedrich qui è il classico uomo di potere consapevole che la mancanza di controllo conduce il popolo all’anarchia, mentre i siciliani appaiono più ferini che gioiosi, più irrazionali che realmente dionisiaci: i costumi metastorici di Sven Bindseil li dipingono come una fauna di animali metropolitani barbarici e postmoderni, vicini a certe notti di Halloween dei giorni nostri piuttosto che al carnevale “umanistico” dipinto da Wagner. Tutto questo, però, non si traduce in una forte lettura socio-politica, né la regia ha tale idiomaticità da ribaltare fertilmente l’assunto drammaturgico dell’autore: lo spettacolo procede a strappi; gli innesti farseschi di Wagner – già non sempre scioltissimi del loro – vengono raddoppiati da qualche artificioso siparietto in italiano, con tanto di riferimenti a mazzette e tangenti, concepito ad hoc per questa trasferta triestina; e tutto l’impianto scenico s’incanala nei canoni di una generica bruttezza, anziché rispondere a quel gusto disadorno, indifferente a ogni pregiudizio estetico, che caratterizza le migliori regie tedesche all’insegna del Konzept.

 

Oliver von Dohnányi ottiene dall’orchestra di Trieste uno spessore fonico da grandi occasioni, anche se la gamma dinamica risulta a tratti un po’ angusta: la leggerezza del comico – già piuttosto latitante in partitura – qui è pressoché assente, né i momenti di ripiegamento lirico appaiono troppo curati. Piace invece la forte plasticità della sua lettura musicale, il saldo polso narrativo del concertatore, la capacità d’illuminare quegli squarci (la trama leitmotivica, taluni cromatismi melodici…) del Wagner che verrà. E anche il coro risponde molto bene.

 


Un momento dello spettacolo. Foto di Fabio Parenzan.

 

Solisti alterni, ma tutti compenetrati. Più baritono che basso, Tuomas Pursio difetta un po’ di robustezza per raffigurare con giusta icasticità canora quella violenza del potere e quei tormenti della carne che fanno di Friedrich un vilain giganteggiante sul resto dei personaggi: ma non si può negare che l’interprete sia sagace ed espressivo, senza bisogno di soverchi istrionismi. Fra le donne spicca invece la Mariana di Anna Schoeck: soprano leggero, a giudicare dai ruoli indicati nel curriculum, capace però di un accento drammatico e un colore ombreggiato quasi da Falcon.

 

L’altro, più protagonistico soprano – la novizia Isabella, monaca intraprendente per amore e destinata a fine non claustrale – era incarnato con elegante lirismo da Lydia Easley, mentre la coppia d’inseparabili amici Luzio e Claudio trovava in Mark Adler un vocalista corretto oltre che un simpatico attor giovane, e in Mikheil Sheshaberidze un Heldentenor piuttosto scompaginato, vero anello debole dell’intera locandina. Saporoso, e pure di solida tenuta vocale, il Brighella di Reinhard Dorn, veterano tutt’altro che in disarmo.

 

Dispiace invece l’inadeguatezza di alcuni elementi italiani del cast, a cominciare dalla Dorella – un ruolo che Wagner non limita al cliché della servetta scaltra – di Francesca Micarelli. Ci si riscatta almeno con Federico Lepre: che nel personaggino sgusciante di Ponzio Pilato (nomen omen) unisce una saldezza da tenore tutt’altro che comprimario a un talento scenico da caratterista di gran classe.

 

 

Das Liebesverbot



cast cast & credits



 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013