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Alle radici del Trovatore

di Paolo Patrizi
  Il trovatore
Data di pubblicazione su web 16/12/2014  

 

Con la sua passionalità magniloquente, l’esaustività della propria vis romantica, il gusto quasi spudorato del romanzesco e della finzione, Il trovatore non è solo un melodramma all’ennesima potenza, ma un archetipo. E un archetipo è appunto ciò che, in questa nuova produzione al San Carlo, mette in scena il regista Michal Znaniecki: con una semplicità disadorna e una plasticità visionaria che rinviano a quell’idea di primitivo e a quelle pulsioni dell’inconscio connaturate a ogni rappresentazione archetipica.

 

Nel segno scabro ma puntuale dello scenografo Luigi Scoglio, la Spagna del quindicesimo secolo cede il passo a una terra fuori dal tempo, delimitata da brandelli di roccia che circoscrivono lo spazio come colonne d’Ercole di un non plus ultra conoscitivo, con pochi elementi scenici stilizzati e polivalenti. È il caso del misterioso reperto, testimonianza di un mondo estinto ma ancora presente, che domina il palcoscenico nel secondo quadro: forse prua di una nave distrutta, forse gigantesca riproduzione del corno suonato da Manrico, che – sempre sotto il segno archetipico dell’epos – rammenta possibili analogie fra il trovatore verdiano e il Sigfrido wagneriano. Il naturalismo del dramma d’appendice, sembra suggerire il regista, qui cede il passo all’eloquente reticenza dei tragici greci, di cui Azucena è una calzante filiazione, mentre l’anima ottocentesca dell’opera è tenuta in vita (a ricordarci che Il trovatore è un archetipo, sì, ma, come tutto Verdi, figlio del suo tempo) dai bei costumi di Giusi Giustino.


Ekaterina Semenchuk (Azucena)
© Luciano Romano

 

Spetta invece alle coreografie di Sandhja Nagaraja esaltare il versante allucinato del dramma, con la sua commistione di metaforico e materico: i danzatori ora replicano e ora sdoppiano gli stati d’animo dei personaggi, si tratti dei protagonisti come di grandi personaggi collettivi come zingari e armigeri. E Tacea la notte placida, contrappuntata da un fantasmatico e vaneggiante ondular di mani dei mimi, qui ritrae benissimo il momento sognante di Leonora, e sottolinea con perfetta sensibilità musicale il brusco trascolorare dalla cavatina alla cabaletta. Mentre gli innesti multimediali di Michal Rovner – artista ben nota nel campo delle proiezioni e installazioni – si armonizzano con discrezione e coerenza nel tessuto visivo dello spettacolo: l’irreale (ma tangibilissima) rappresentazione della fiamma del rogo, e la capacità di far evocare alla stessa silhouette la zingara arsa viva e la trasformazione monastica di Leonora, sono in calzante dialettica con la drammaturgia messa in atto dal regista.

 

Znaniecki fonde con scioltezza questi diversi contributi, lavorando poi molto su un aspetto che poteva restare ai margini di un Trovatore così stilizzato: quello dell’indagine psicologica. Il maschilismo del melodramma ottocentesco, con la donna angelicata ma ricondotta a vittima sacrificale, emerge assai bene: Leonora appare davvero una creatura sognante e perdente, e perfino Ines – empatica con la sua padrona sino al transfert, a giudicare da certe controscene durante Tacea la notte placida – sembra accomunata nel medesimo infelice destino muliebre. Mentre il binomio amore-odio, che puntella tutto Il trovatore, resta ben presente, ma sotto un più originale punto di vista: la capacità di amare, se caratterizza Leonora, qui è tutt’altro che estranea pure al Conte di Luna, sottratto alla prevedibile dimensione del vilain (e non a caso la medesima proiezione, con minimi cambiamenti, scorrerà durante sia D’amor sull’ali rosee che Il balen del suo sorriso).


Juan Jesús Rodriguez (Il conte di Luna)
© Luciano Romano


 

L’odio, invece, rimane espresso dalla coppia madre-figlio, Manrico non meno di Azucena: e questo trovatore imborghesito dall’imminente matrimonio, che canta Ah! Sì, ben mio in piena quiete domestica con una coppa di vino in mano, salvo poi riprendere la spada e gettarsi nella mischia come un energumeno, ispira assai meno simpatia del fratello cattivo. Quanto a quella vera e propria quintessenza della parola “concisione” che è il finale dell’opera, con il suo fulminante scambio di battute («Egli era tuo fratello!...» / «Ei!... quale orror!...» / «Sei vendicata, o madre!» / «E vivo ancor!»), Znaniecki la risolve con pari stringatezza visiva: una piattaforma nera cala dall’alto, fino a schiacciare i personaggi e avvolgere il palcoscenico nella totale oscurità.

 

Nicola Luisotti, al suo addio come direttore musicale del San Carlo, asseconda questa tendenza a una lettura più raccolta che esuberante: ma quanto nella regia appare stilizzato e concentrato risulta, nella concertazione, piuttosto freddo e disinnescato. I tempi appaiono meno spediti rispetto alla prassi esecutiva, e appunto per questo sono per lo più conformi alle effettive prescrizioni verdiane. Tuttavia, anziché lenti, danno l’idea di essere slentati: latita un’effettiva pulsazione interna, né il più dilatato respiro del fraseggio orchestrale mette al riparo da cadute nell’appiombo tra buca e palcoscenico (alla “prima” c’è stato un fuggevole, ma palpabile, momento di disordine nel Finale secondo). E optare per un’edizione sanamente integrale – nessun “da capo” viene sacrificato – non ha impedito al direttore di pagare un piccolo pedaggio alla cattiva tradizione: quel Manrico che unisce la sua voce a quella di Leonora, abbinando un improbabile «Son io dal ciel disceso» al «Sei tu dal ciel disceso» cantato dal soprano, rientra nei vezzi d’antan di cui non si sente più il bisogno.

 

Il cast, a sua volta, appare in felice dialettica con la regia sul fronte femminile piuttosto che su quello maschile: perfino Elena Borin, nel suo fugace comprimariato, imprime a Ines lo spessore scenico e canoro suggerito da Znaniecki. L’elemento più dotato è Ekaterina Semenchuk: un’Azucena di gran rilievo per l’ampiezza della gamma dinamica e la capacità di abbinare un registro superiore penetrante a un’ottava bassa timbratissima nei suoi affondi di petto, quasi a sancire la dissociazione psicologica tra mater dolorosa e implacabile giustiziera. Ma pure Lianna Haroutounian è artista sensibile e vocalità di spicco: una voce all’antica – anni Quaranta, verrebbe da dire – dal “vibrato” espressivo senza invasività, e un calore che s’irradia soprattutto nel registro medio. Né è da tutti i giorni ascoltare una Leonora che, all’attacco di D’amor sull’ali rosee, rende con tanta precisione e naturalezza l’improba prescrizione verdiana «pianissimo con espressione».


Juan Jesús Rodriguez è un baritono troppo granitico per rendere tutte le sfumature che questa regia suggerirebbe al Conte di Luna: ma gli spettano le attenuanti del sostituto giunto a prove iniziate e l’onore delle armi dovute a un solido professionismo, che onora con saldezza di fiati e compatta timbratura pure i passaggi più scabrosi. Un certo pallore timbrico, unito a trilli di Abbietta zingara un po’ abborracciati, caratterizza invece il Ferrando di Carlo Cigni. Tuttavia, ciò che davvero rischia di compromettere lo spettacolo è il Manrico di Marco Berti: pavarotteggiante nelle intenzioni, ma capace di replicare del modello solo certi suoni oltremodo aperti, che nell’originale assicuravano un formidabile sfavillio vocale e qui si traduce in una linea di canto scomposta, ulteriormente aggravata da problemi di precisione ritmica e intonazione. Se questa – come da qualche parte si è letto – è la “tenorilità all’italiana”, la nostalgia per certi grandi trovatori di scuola tedesca e nordeuropea è ancora più acuta.


Il trovatore



cast cast & credits
 
trama trama


Lianna Haroutounian (Leonora) e Marco Berti (Manrico)
© Luciano Romano




 
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