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Arti sceniche in cantiere a San Gimignano, 16-20 luglio 2014

di Mariangela Milone
  Orizzoti Verticali 2014
Data di pubblicazione su web 08/09/2014  


Dal 16 al 20 luglio 2014 si è svolta a San Gimignano la seconda edizione del festival Orizzonti Verticali, Arti Sceniche in Cantiere a cura della Compagnia Giardino Chiuso. In programma, tutti i giorni, performance, installazioni, spettacoli di teatro e di danza, conversazioni itineranti per il paese ed incontri fra pubblico, artisti, critici e operatori.

Il ciclo di incontri dal titolo “Generazioni a confronto: storia, presente e scenari futuri” era volto ad alimentare una discussione che, partendo dalla pietra miliare del Convegno di Ivrea del 1967 e valendosi della presenza di rappresentanti delle diverse generazioni teatrali, si proponesse come momento di riflessione aperta e di mappatura del percorso compiuto dal teatro italiano fino ad oggi. Come raccogliere i frutti di un periodo – quello della seconda avanguardia – che aveva proprio nella dissipazione il suo punto di forza? In che modo, oggi, riuscire a portare negli spazi comuni la cultura; come fare a renderla accessibile e non, alla stregua del puro intrattenimento, concorrenziale ed invadente? In che modo suscitare nello spettatore anche casuale la curiosità, la necessità di partecipare a delle attività culturali? Queste ed altre le domande che sono emerse fin dal primo dei dibattiti previsti nel cortile del Palazzo Comunale a San Gimignano, ai quali si affiancava giorno per giorno la visione degli spettacoli in programma, condivisa dai partecipanti ai dibattiti con persone quasi del tutto ignare del festival in corso.

 

Assistere, giovedì 17 luglio in Piazza Duomo, subito dopo il primo incontro-dibattito, alla performance di danza curata dalla coreografa Sioned Huws, Aomori Aomori, climate, body & soul, ha messo immediatamente in evidenza come la situazione odierna sia lontana da quei tempi in cui, nel bel mezzo dell’occupazione – poniamo – di una palestra da parte di manifestanti negli anni Sessanta, degli artisti riuscivano, con intelligenza e tatto, a farsi spazio nella calca stendendo un tappeto e ponendo i loro curiosi oggetti di scena su di esso. Probabilmente non era diversa la ‘presenza’ con cui gli artisti in procinto di dare inizio ad una performance creavano uno spazio allora, e la presenza di un performer dei giorni nostri. Opposta è però la tensione, il clima, con cui un artista che voglia esprimersi oggi in una piazza gremita di turisti (e non si serva nemmeno di un palco per farlo) deve scontrarsi. Si parla spesso dell’indifferenza con cui il pubblico, assuefatto alla compagnia della televisione, reagisce agli stimoli (che sono cose diverse e lontane dalle provocazioni) degli spettacoli dal vivo, ma a San Gimignano era evidente come l’indifferenza non fosse assolutamente di casa e come fosse invece uno scontro ben più potente a dare spettacolo: la compresenza in uno spazio aperto di persone intente a fare ognuna qualcosa per conto suo. Turisti in transito perenne, residenti seduti sotto la loggia, persone sui gradini della chiesa e, nel frastuono creato dal vociare di tutti, da una parte i danzatori che si esibivano e dall’altra noi che eravamo lì per assistere allo spettacolo, ma eravamo anche presi da conversazioni a proposito dell’incontro a cui avevamo appena preso parte. In questo modo, lentamente ed in sordina –  nonostante la raffinata musica prodotta dal vivo – la performance ha raggiunto i presenti, facendo letteralmente da fondale alla scena in tumulto della piazza. C’è da dire che, come mi ha accennato la curatrice della sezione danza, Patrizia de Bari, Sioned Huws aveva scelto di non segnare in alcun modo lo spazio che sarebbe servito per la performance; non la preoccupava il fatto che i suoi danzatori (dieci persone che avevano preso parte ad un laboratorio gratuito, organizzato ai fini della messa in scena a San Gimignano) sarebbero venuti a contatto con i passanti o che i passanti avrebbero potuto, per disattenzione, attraversare lo spazio della performance. In effetti la scelta, che all’inizio metteva un po’ in apprensione gli organizzatori del festival, si è rivelata giustissima: tutti, anche se a fasi alterne, e cogliendo forse difficilmente l’intero spettacolo, hanno vissuto insieme con esso. In poco tempo, nella percezione dei presenti, non c’erano più danzatori in movimento ma la sensazione diffusa che il suolo della piazza si muovesse al ritmo delle onde, o che, all’improvviso, ad un lato della strada fosse spuntato un albero ondeggiante. Ovviamente, vedere delle ragazze rotolare a terra ha immancabilmente suscitato i commenti ironici dei più, ma chi era in piedi e registrava, anche se solo con la coda dell’occhio, i mutamenti dello spazio, è stato colto di sorpresa dalle danzatrici che sono arrivate lentamente a lambirgli le gambe, creando l’effetto di un contatto delicato con la risacca del mare. Un po’ di suggestione dovuta alla musica e alla danza, ma non è tutto: sul finire della performance tutti i partecipanti hanno creato la composizione perfetta per una foto che i turisti non si sono lasciati scappare, ultimo tocco per far notare con classe che è ancora possibile inventare modi per dialogare anche con chi, apparentemente, è più lontano dai nostri discorsi. Offrendosi per qualche minuto in un immobile e straniante tableau vivant i danzatori non hanno cessato di danzare ed hanno, al contempo, attratto anche l’attenzione temporanea di quel gruppo che sembrava più ostile a soffermarsi: i turisti.

 

Un momento della performance
Aomori Aomori, climate, body & soul
Foto di Francesco Spagnuolo
 

Meno, ma più motivati spettatori, si sono ritrovati invece alle nove di sera in Piazza Sant’Agostino dove, sui gradini posti lungo il lato longitudinale dell’omonima chiesa, Giancarlo Cauteruccio aveva allestito il suo Paesaggio beckettiano con sguardi. Trittico beckettiano. Protagonisti dell’opera site specific la voce di Carla Tatò, capace di invecchiare in scena al passare dei minuti di parecchi anni, e le lunghe ombre dei personaggi con cui l’unica anima, quella del testo beckettiano fattosi suono, andava avanti a ragionare. Sparivano dopo pochissimo tempo agli occhi dello spettatore i pochi oggetti di scena, fagocitati dal racconto delle ombre. Perfino l’attrice, intenta a leggere  e interpretare le battute seduta ad un tavolino in piena luce, veniva assorbita dai mattoni illuminati della chiesa fino a sparire, mano a mano che lo spettatore si abituava a guardare nel luogo di luce dove l’ombra di Carlo Quartucci e del suo cane si avvicinavano, strisciando sulla parete della chiesa, al profilo scuro della donna misteriosa che stava parlando: un’ombra, personaggio staccato dall’attrice che le dava figura. A tratti più giovane, a tratti tremendamente più vecchia, l’ombra-voce viveva i gesti dell’attrice animandosi di movimenti lievemente diversi. Per lo spettatore diventava così possibile vedere e ascoltare una narratrice ed il suo personaggio compresenti in scena e in grado di vivere simultaneamente dello stesso testo, pur da diversi punti di vista, rincorrendosi. Gli accavallamenti tra reale e mentale suscitati dal lavoro del Teatro Studio Krypton di Cauteruccio non si esauriscono tutti in questo spazio: chi – per curiosità – prima dell’inizio dello spettacolo avesse vagabondato intorno alla chiesa, avrebbe potuto sbirciare oltre il cancello aperto sull’ex-cimitero, dove avrebbe scorto un brulichio di persone in costume teatrale ed una serie di leggii. Così ci si sarebbe aspettati qualcosa di simile ad un concerto eseguito da musicisti in maschera quando, al presunto termine dello spettacolo, Giancarlo Cauteruccio in qualità di Caronte ha traghettato a suon di gesti il pubblico, scomodandolo dalle sedie ed introducendolo in un altro paese. Attraverso una selva di leggii sui quali erano aperti fogli recanti una sola parola ciascuno – simili a singole note che, una con l’altra, aspettano solo di diventare una melodia –, gli spettatori avanzavano camminando come in una catacomba all’aperto verso la bocca di una donna schiacciata contro uno schermo: la cantante Monica Benvenuti, dall’alto di un piccolo palco ma al di sotto dello schermo che riproduceva in tempo reale l’immagine della sua bocca, tentava di intonare un canto che si tramutava ciclicamente in grido, incapace di diventare alcunché di diverso nonostante i reiterati tentativi. Intorno allo spettatore gli abitanti di San Gimignano – in quanto creature del luogo –  erano esibiti nelle note vesti dei personaggi di Beckett, ognuno immobilizzato nel tempo eterno di un momento unico della propria esistenza di personaggio, offrendo allo spettatore-viandante un’esperienza simile a quella di un passante che registri la presenza degli abitanti di un paese cogliendone in una posa, in un atteggiamento, il ruolo assunto nel proprio ambiente. Il progetto di Cauteruccio, con la partecipazione di Carla Tatò, Carlo Quartucci e i cittadini di San Gimignano, metteva in scena non solo uno sguardo sul paesaggio Beckettiano, miniaturizzato ma mai definitivamente immobilizzato da uno sguardo d’insieme che vuole andare  oltre le singole situazioni e le mette in comune; ma anche uno sguardo sulla comunità e – forse – sull’importanza di mettere in comune proprio la solitudine.

 

Carla Tatò
in una scena dello spettacolo
 Paesaggio beckettiano con sguardi. Trittico beckettiano
Foto di Francesco Spagnuolo
 

La strategia con cui è stato organizzato il festival si è rivelata impeccabile sotto il punto di vista dell’organizzazione degli eventi: arrivare ai Radio Walk Show curati da Carlo Infante dopo una mattinata libera per ripensare agli spettacoli e, magari, per poter visitare da vero e proprio turista il paese, è stato utile per cogliere appieno lo spirito delle conversazioni itineranti. Simpatico, nel senso etimologico del termine, intraprendere una passeggiata armati di ricetrasmittenti e accompagnati da uno speaker, proprio come in gita scolastica, ed essere poi presi in contropiede da una raffica di domande. Le brevi passeggiate per San Gimignano seguivano un percorso stabilito in precedenza: dalla Loggia del Teatro dei Leggieri la comitiva si spostava verso i punti di maggiore interesse per la cittadinanza, dalla piazzetta cresciuta intorno ad un bagolaro centenario e abbracciata da un muretto sul quale campeggia un’installazione dell’artista Joseph Kosuth, fino all’ex-convento di Santa Chiara diventato sede della Galleria d’Arte Moderna, passando per le buie stradine medievali dove, artisti come Nunzio, hanno compiuto discrete incursioni di contemporaneità  applicando, sotto la volta oscura di un arco, una lamina dorata che non illumina certo come farebbe un’installazione luminosa, ma riflette la luce dal fondo della strada fino a schiarire le ombre del cunicolo. Dalla parola avanguardia a quella del giorno, cittadinanza, gli incontri con Carlo Infante assolvevano a diversi compiti: recuperare le fila delle conversazioni svolte il giorno precedente, riconsiderarle anche alla luce degli spettacoli visti, proporre un nuovo argomento di riflessione da sommare a quelli già esposti e, soprattutto, stimolare ognuno a non tenere le proprie considerazioni per sé ma ad esternarle e metterle in circolo sul momento, per contribuire alla creazione di una mappa cognitiva di termini chiave (consultabile su internet all’indirizzo http://www.orizzontiverticali.net/web/archives/676), facendo anche uso dei mezzi tecnologici che abbiamo oggi a disposizione.

 

Proprio la questione della ricerca di parole chiave e del diffondersi di un dizionario comune che possa servire ad orientare nell’odierno panorama teatrale, hanno portato durante il secondo incontro tra attori, registi, critici e pubblico a constatare che nella visione di un esperto regista come Micha van Hoecke, risulta ancora evidente come la diffusione di termini comuni sia utile, in quanto può portare alla costruzione di una comunità entro cui il teatro torni ad essere in grado di riattivare il tessuto sociale e che, quindi, altrettanto chiaramente, la comunicazione debba esserci in primis tra gli artisti. Nella visione dei due componenti della compagnia Clinica Mammut, fondata da Alessandra Di Lernia e Salvo Lombardo nel 2012, oggi quello che dà forma alla partecipazione e quindi alla comunità è la mediaticità e, chi lavora nel teatro, fa sempre più fatica a trovare un luogo per l’incontro tra le diverse compagnie giovani che non sia un luogo-evento. Inoltre l’asse della messa in comune di parole chiave, dell’alfabetizzazione e del formarsi di un vocabolario comune si è totalmente spostato nell’orbita dello spettatore: è a lui che si dirige la maggior parte delle attenzioni e, sempre allo spettatore, sono dedicati proprio quegli eventi a cui le compagnie, spesso senza nemmeno conoscersi tra loro, se non di nome, sono invitate ad esibire le loro produzioni.

 

Alla domanda a brucia pelo di Carlo Infante, che rifletteva sull’installazione beckettiana di Cauteruccio: ‹‹Se dico ‘perturbante’, a cosa pensi?››, proprio all’inizio del Radio Walk Show di venerdì 18 luglio, Salvo Lombardo aveva lucidamente risposto: ‹‹Alla perdita dello spettatore››, suscitando una fulminea riflessione. Lo spettatore, sperso, oggi a differenza che negli anni Sessanta, fa paura, perché uno spettatore che si perde, non capisce – si pensa –, non segue e quindi non partecipa. È stata spesso nominata nel corso del festival una parola che, stranamente, non è  ancora confluita nella mappa cognitiva, la parola “scena”. Carlo Quartucci ne aveva parlato durante il primo incontro accennando al rapporto tra scena e verità che trovano un punto di contatto in quello che può definirsi ‘corpo scenico’, ossia l’insieme delle arti in presenza delle quali si è in grado non di assistere ad uno spettacolo, ma di percepire, attraverso una messa in scena, la scenicità della vita.

 

Come è avvenuto, di fatto, per l’Aomori Project di Sioned Huws che, con l’equilibrio e l’ordine misurato di una danza nata in una remota regione del Giappone, ha portato con sé in piazza a San Gimignano, la sensazione della presenza di una selva viva da attraversare in grado di rivaleggiare con quella già costituita dalla selva dei passanti. E così è stato, anche se in maniera diversa, per lo spettacolo di danza L’ombra della sera_Primo Studio della Compagnia Teatropersona; quattro quadri che prendono avvio da una morte, da un funerale al quale, per assurdità, non è possibile assistere e che approdano per ora, nel lavoro in corso, ad una creazione in sboccio proprio dal ventre del padre-amante venuto a mancare, la cui presenza è costruita poeticamente con un paio di scarpe vuote sormontate dalle gambe di una sedia sul cui sedile, come da un feto, prende lentamente forma sotto la luce una schiena nuda che conquista a poco a poco la maturità di un volto scolpito dal movimento. Unica pecca di questo spettacolo, i cambi di scena a vista durante i quali la danzatrice Chiara Michelini, sempre sola in scena, non riesce a mantenere alto il livello di intimità con lo spettatore, al quale è chiesto in modo implicito di rimanere semplicemente in attesa prima di tornare ad immergersi nel nuovo quadro, una volta predisposto.

 

Un momento dello spettacolo Monsieur, Monsieur
Foto di Francesco Spagnuolo
  

Qualcosa di veramente intimo è riuscito invece a creare Micha van Hoecke con il suo Danse Theatre L’Ensemble per lo spettacolo Monsieur, Monsieur. Ispirato ad una raccolta di poesie di Jean Tardieau, Le fleuve chaché, questo spettacolo è stato allestito nello spazio all’aperto della Rocca di Montestaffoli, all’estrema sinistra del cortile dove i turisti non hanno cessato mai di passeggiare o fermarsi sull’erba durante tutto il giorno ed oltre. Il palco era stato addossato ad una parte della cinta muraria della Rocca, in modo da formare un cantuccio appartato, un’alcova dalla quale lo spettacolo non avrebbe dominato con le sue musiche e le sue luci l’intero spazio aperto, ma sarebbe stato visibile solo a chi avesse preso posto tra le sedie o si fosse avvicinato per guardare. Subito accolti da degli eleganti mimi immobili, gli spettatori prendevano posto, diretti e accompagnati da van Hoecke che, a metà tra una maschera ed un esperto cerimoniere, allietava il tempo d’attesa prima dell’inizio dello spettacolo, senza mai lasciare il pubblico solo: lo spettacolo non era ancora iniziato, continuavano ad arrivare nuovi spettatori ma, di fatto, non c’era nessuna intenzione tra il pubblico di chiacchierare o di distrarsi. L’attenzione era catturata dai siparietti di van Hoecke e, soprattutto, dai mimi che infondevano allo spazio il fascino sospeso di un atelier alla Decroux. Ma, anche in una situazione ben studiata come questa, fisiologicamente, l’attenzione dello spettatore inizia a calare; ed ecco che a questo punto i mimi si animano e sorprendono quanti, in mezzo al pubblico, continuano ad osservarli in cerca di altro: nell’attimo in cui gli occhi di una persona tra il pubblico incontrano quelli di un mimo, innescano un micro-spettacolo per spettatore solo. Impossibile abbassare lo sguardo o girarsi cercando di non farsi coinvolgere, ogni spettatore che cerca di distrarsi viene colto al volo sul fatto e trascinato in una pantomima che lo risucchia e non lo fa più allontanare, fino a quando ogni mimo disperso tra il pubblico non raggiunge il palco da dove porta avanti l’incipit avviato nel soliloquio con il suo spettatore d’elezione. A questo punto le diverse parti dello spettacolo si fondono e, su uno sfondo musicale jazz di gusto squisitamente belga (un jazzista per tutti: Django Reinhardt) i versi di Tardieau, recitati/cantati in lingua originale, vengono resi visibili attraverso apparati scenografici che fanno diretto riferimento alle ambientazioni dei quadri surrealisti: una porta sganciata da qualsiasi parete e degli oggetti immersi in un grande vetro galleggiano sulla scena esibendo un pattern azzurro cielo su cui sono immortalate delle nuvolette in transito. Tutti gli elementi, soli nello spazio, si stagliano sullo sfondo di un porticato “vero” che, al momento opportuno, verrà acceso da una luce rossa e fungerà da altra scena per gli spettatori, i quali, guardando oltre il palco, nel luogo dove di solito regna il trambusto delle quinte, assisteranno alla recitazione dei versi di Tardieu da parte di van Hoecke in un clima – potremmo dire – da camera, come se il cielo stellato e il canto dei grilli fossero ulteriore apparato scenico o colonna sonora e non parte del mondo reale dove i turisti transitano a tutte le ore in cerca di belvederi.

 

Tutto racchiuso in uno degli affreschi-simbolo di San Gimignano, quello dell’ Annunciazione di Domenico Ghirlandaio, il grande tema del rendere pubblico un avvenimento privatissimo ambientandolo in un luogo all’aperto, di divulgazione, dove con pochi elementi ci si ritrovi allo stesso tempo nell’intimo della propria casa, è stato uno dei fili conduttori del festival, ma anche un ottimo punto di riflessione sul teatro contemporaneo che mette con sempre più accuratezza in scena un mondo tutto personale, privato, che appartiene a chi recita in virtù del momento in cui riesce a condividerlo con un interlocutore. Melanconie in dedica a Pier Paolo Pasolini è uno spettacolo di Clinica Mammut, giovane compagnia formatasi a Roma nel 2012 per opera di Alessandra Di Lernia e Salvo Lombardo. Controparte del loro dialogo è lo spettatore ma non solo: Pasolini compare, inframmezzando con i versi delle sue poesie e con lacerti delle sue visioni cinematografiche le elucubrazioni pacate dell’uomo e della donna che vediamo, irraggiungibili ed impenetrabili come comuni passanti presi dai propri pensieri e dalle proprie esistenze, arenarsi con sempre più convinzione in se stessi. Ma non è un modo per sfuggire il loro inabissarsi oltre il vetro che li allontana da noi, è un tentativo di fare qualcosa di antico con un tocco di algida novità: sedurci, trascinandoci quasi per ipnosi in un mondo che conosciamo bene, quello di un diverso tipo di quotidianità che siamo così soliti spiare, magari da una finestra, ma che ci annoia se ci viene raccontata: la quotidianità altrui. È nel primo atto delle Malinconie, quello dedicato alla Lucia del Teorema pasoliniano, che la fragilità di un racconto interiore messo propriamente in piazza viene alla luce in tutta la sua crudezza, anche nelle piccole mancanze tecniche che portano un progetto ben pensato a naufragare leggermente in preda ad un contatto forse un po’ sottovalutato. Se la forza del II atto delle Malinconie dal titolo Del sordo rumore delle dita stava anche nel luogo scelto per la rappresentazione, ossia la Loggia del Teatro dei Leggieri che ha permesso agli attori di barricarsi in vetrina come figure sacre di un’icona, la debolezza della I Malinconia è stata forse quella di aver rinunciato a lavorare “di fianco” e a suscitare intorno una curiosità lenta, di quelle che fanno fare silenzio a poco a poco. Nella Malinconia I l’attrice Gloria Anastasi ha il suo perimetro d’azione proprio al centro della piazza: coadiuvata da un microfono ad archetto che dovrebbe amplificare la sua voce e la sua presenza, parla e canta intorno ad un banco-scrivania che è letteralmente la sua ancora di salvezza nel mare magnum di turisti e abitanti del paese i quali, attenti ad altro, non vengono quasi per nulla catturati dal suo “stare in mezzo”. All’opposto, nonostante i problemi di acustica dati dall’alta volta della Loggia che disperdeva velocemente gli ambienti sonori della II performance, i turisti di passaggio si bloccavano e si avvicinavano con un contegno ed un rispetto che spesso dimenticano di portare in chiesa.

 

Alessandra di Lernia
Melanconie in dedica a Pier Paolo Pasolini
Foto di Francesco Spagnuolo
 

Il penultimo incontro della serie “Generazioni a confronto” di sabato 19 luglio, è stato organizzato intorno al problema del come parlare, dando testimonianza, di un teatro che si è visto da vicino. Quali gli spettacoli che, nel corso degli anni, hanno lasciato tracce più evidenti in coloro che li hanno visti; dai lavori di Leo De Berardinis e Perla Peragallo, alle scene più schok-anti degli spettacoli dei Magazzini Criminali; dal teatro di Scabia e Quartucci fino allo stesso Tuccio Guicciardini e ai suoi lavori con il Gruppo della Rocca. Carlo Infante ha coinvolto i partecipanti, ai quali si erano uniti anche gli attori della compagnia di Emma Dante, in un dibattito che prendesse avvio dall’incontro più significativo di ognuno con il teatro. Una conversazione apparentemente disimpegnata ha portato quindi alla riflessione che si è fatta mano a mano più pregnante, fino all’intervento di Luca Dini, co-direttore del Pontedera Teatro che ha esplicitato il nodo sotteso allo scambio di opinioni. Spesso si lavora con il teatro perché qualcuno a sua volta  ha dato con il suo lavoro una visione che, per qualche motivo, ha colpito nel segno. Se di una tradizione si può lucidamente parlare è forse proprio di questa: si riceve a volte dal teatro una visione che poi si ha il compito di inseguire responsabilmente e coerentemente, sia da parte di chi lo produce, sia da parte di chi ne usufruisce. Questa responsabilità dovrebbe guidare soprattutto le scelte di quanti operano nel settore teatrale al fine di creare intorno al teatro – luogo potenziale e, in questo senso, vuoto perennemente in attesa –, delle comunità temporanee, legate all’alterità che di volta in volta ogni attore offre allo spettatore ed al contatto che proprio lo scambio sempre ambiguo tra vita ‘reale’ e vita ‘travestita’ sono in grado di generare.

 

A questa condizione ideale si affianca però, di fatto, la constatazione che ad un contatto tra spettacolo e spettatore non sempre e non necessariamente segua un vero incontro. Lo spettacolo Where are you from del duo Borderline Danza fondato da Claudio Malangone e da Sung Yong Kim ha portato in scena, sul palco del Teatro dei Leggieri, un progetto assolutamente ambizioso dei due coreografi, che non è stato però in grado di affascinare il pubblico. Come si può leggere nell’opuscolo dedicato al festival, con Where are you from si voleva in qualche modo anche qui affiancare diversità, portandole a coesistere sul palco davanti agli occhi degli spettatori, mediante l’esposizione di corpi creativi in azione. La scelta di alternare i momenti di danza con gli stacchi di buio in cui veniva proiettata sullo schermo a fondo scena un’ intervista ai due danzatori, dava allo spettacolo un’aria di clip commerciale poco felice che ha, per tutto il tempo, distolto lo spettatore da quelli che avrebbero potuto essere i contenuti meno palesi della loro performance. Sarebbe stato molto interessante ed utile, forse per ambo le parti, avere con loro uno scambio di opinioni durante uno degli incontri organizzati dal festival, ma non è stato possibile.

 

Una scena dello spettacolo
Mi chiamo Dino…sono elettrico
Foto di Francesco Spagnuolo
 

Si sono dimostrati, invece, sempre molto disponibili a parlare della loro produzione Mi chiamo Dino…sono elettrico, il regista Tuccio Guicciardini e l’attore Fulvio Cauteruccio. Lo spettacolo nasce dall’interesse verso la persecuzione perpetrata da una generazione sulla successiva tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, vero e proprio crocevia storico, a partire dalla quale si snoda la vicenda narrata da Sebastiano Vassalli ne La notte della cometa, fulcro di partenza dello spettacolo. Il libro cerca di svelare le condizioni entro cui dovette muoversi e operare il poeta toscano Dino Campana, ritenuto pazzo e per questo perseguitato dai benpensanti. Costruito in particolare intorno agli anni passati da Campana nel manicomio di Castel Pulci (dove alla fine morirà), lo spettacolo ha animato il cortile dell’ex-carcere di San Domenico con le visioni e le voci alberganti nella mente di un malato dalla sensibilità irascibile, chiudendo con lui nel manicomio-carcere gli spettatori. Il taglio delle luci, lunghe e striscianti a terra e sulle pareti come fossero ombre; le sbarre, vere, del cunicolo e delle finestre; i muri scrostati e umidi ed il quadrato d’aria del carcere davano già da soli agli spettatori un forte senso di oppressione condiviso dall’attore Cauteruccio-Campana che, per tutto il tempo, ha lottato strenuamente con se stesso, ora alla ricerca nervosa di un rifugio, ora in preda ad un’esplosione tutta diretta ad un pubblico per lui ben visibile. La voce fuori campo del medico torturatore Pariani ed una donna fantasmatica – Laura Bandelloni nei panni di Sibilla Aleramo, croce e delizia della disturbata vita sessuale del poeta – compaiono e scompaiono come gli schiocchi di luce nella scena dell’elettroschock in cui è concentrata la parabola di un uomo in piedi che, attanagliato dalla propria mente e dallo sguardo altrui, si accascia a terra, in mutande, disfatto, come può mostrarsi solo un uomo stuprato dalle sue visioni (se vogliamo, una versione impudica del dipinto Le tentazioni di S. Antonio di Domenico Morelli). Ben pensato e, scenicamente, ben costruito, lo spettacolo però non sembra voler innescare nessun processo di penetrazione-reazione tra vittima (l’attore in scena) e potenziale carnefice (il pubblico). Nella struttura dello spettacolo gli spettatori-carcerati vengono considerati alla stregua di compagni di cella, presenze altrettanto costrette a passare il loro tempo nel carcere, emarginati tra i quali il poeta è uno tra tanti che racconta agli altri la sua situazione. Se questa scelta mette un po’ da parte il pubblico facendone una massa in ascolto, stranamente estranea alla vicenda nonostante tutto, intorno, cerchi di comprenderla ( non solo la scenografia ma anche i movimenti dell’attore, curati da Patrizia de Bari, tendono ad accerchiare gli spettatori: Cauteruccio li cerca con lo sguardo, a volte addirittura li conta uno a uno, poi corre loro intorno); dall’altra cerca di mettere in scena, sulla scorta del lavoro di Sebastiano Vassalli, quella attitudine al racconto descrittivo che la mente nevroticamente lucida di Campana aveva. Sembra di poter connettere il racconto di sé che l’attore rivolge al pubblico a quello che, nei Canti Orfici, è dedicato da Campana al suo alter ego Regolo Orlandelli e che è fedelmente riportato nel libro di Vassalli. Non compaiono quindi, se non quando strettamente necessari, i versi del poeta nello spettacolo, tutt’al più viene compiuto un sottile studio dei procedimenti del suo pensiero, ancorati ad una solida (anche se distorta) memoria. Il rischio che la scelta di far rivolgere agli astanti le parole di Campana – come se parlasse ad altre parti di sé –  comporta, è quello di far rimanere l’attore in un limbo: mai del tutto poeta e mai nemmeno solo testimone informato dei fatti (come figura nel libro Vassalli). Di qui forse quello che fornisce all’attore il motivo di vivere in stato di panico la situazione mentale del suo personaggio, mentre, come scrive Campana a proposito della lucidità straniata con cui, proprio attraverso la crisi di nervi il suo alter ego vede le cose: ‹‹ogni fenomeno è per sé sereno››.

 

L’Operetta burlesca di Emma Dante ha chiuso sabato sera in Piazza delle Erbe il ciclo di spettacoli del festival. Gli spettatori sono stati trattenuti prima dell’inizio dello spettacolo oltre le transenne, dietro dei paraventi, esattamente come, per tradizione, in teatro aspettano nel foyer  prima di prendere posto in platea. La piazzetta, incastonata tra il Duomo e gli stretti dedali del paese, è rimasta come una piccola isola galleggiante al centro di San Gimignano, nascosta agli sguardi ma non del tutto protetta dai rumori e dalle voci provenienti dai locali e dalle scalette sempre pieni di vita proprio lì accanto. Sicché l’ambientazione di per sé indefinibile e fluttuante dello spettacolo ha goduto di ulteriori effetti di ambiguità rispetto al progetto di partenza: contro il fondale nero del palco si stagliavano a mo’ di tendaggi delle bambole gonfiabili appese come marionette dalle espressioni perennemente bloccate al culmine dell’impresa per la quale erano state prodotte; difficile non pensare ad un ironico richiamo alla presenza costante nell’immaginario siciliano dei Pupi e delle loro cavalleresche imprese, residui di una cultura lontana. Effettivamente, perché non vedere Pietro, il protagonista dello spettacolo, alla stregua di un cavaliere votato ad affrontare mirabolanti imprese in nome dell’amore, pronto a sacrificarsi a modo suo e lottare, alle prese con un’avventura quasi fin dall’inizio palesemente disperata? Al centro della scena, in piedi, con le braccia distese e le mani timidamente allacciate e spesso nascoste tra le gambe con quella gestualità infantile che si adopera per raccontare ai bambini una bella storia – o per ingannarli – il protagonista parla al pubblico della sua vicenda. Nato a Napoli, con genitori emigrati dalla Sicilia, Pietro lavora contro la sua volontà in una pompa di benzina. I suoi diritti sono pochi: un giorno a settimana libero per andare a fare shopping segretamente a Napoli e le sere in cameretta, per travestirsi e ballare di soppiatto. Fino a che, a quarant’anni, s’innamora durante una delle sue piccole fughe, di un commesso in un negozio di scarpe. Raffinata anche se roboante nella sua semplicità tecnica la scena dell’innamoramento, tutta giocata su effetti speciali olfattivi oltre che visivi suscitati da due deodoranti spray che sprigionano i loro effluvi nell’aria eseguendo elaborate coreografie nelle mani di Pietro e del personaggio/proiezione mentale del suo innamorato durante la fase del corteggiamento. E poi? E poi, tutto quello che fin dall’inizio è stato al suo posto in scena si anima di una vita insospettabile come fanno le bambole nei racconti di Hoffmann: il padre-padrone, dall’alto del suo seggiolino declama le sue invettive come un’erinni in attesa di punire l’eroe per la sua hybris; la ragazza ammiccante, sempre semivestita e giocosamente provocante in cui Pietro si rispecchia non gioca più solo a vestire e svestire le bambole ciondolanti ma stabilisce un rapporto impetuoso con l’uomo-amante che la abbraccia e la stringe a sé in un nudo corpo a corpo tanto passionale quanto effimero. Pietro, nel rivivere il suo racconto da un luogo che può apparire allo stesso tempo un’aula di tribunale, un bar di paese o la sua tanto menzionata cameretta dove rimane bloccato ad immaginare di raccontare a qualcuno la sua storia, è totalmente fuori dai giochi: tutto quello che vediamo accadere intorno a lui è ormai solo un ricordo nella sua mente di cui non rimane altro che un odore di corpi consumati e impiastricciati di deodorante industriale. Anche se nella vita non esiste lieto fine, perché accontentarsi di piccole dosi di soddisfazione personale per ingannare l’attesa? Il disincanto mette al riparo le persone dagli ideali irraggiungibili, forse è vero, ma intrappola i sogni – che ci distinguono dagli animali – in un’intimità eternamente impossibile da condividere se privata di un qualsiasi percorso di formazione.

 

Un momento dello spettacolo
Operetta burlesca
Foto di Francesco Spagnuolo

 

Si diceva, fin dai primi incontri sulle generazioni a confronto, di come oggi il teatro non possa più abbandonarsi ad una prospettiva di transitorietà o di provvisorietà. Se l’avanguardia è stata in qualche modo un fuoco fatuo, la baluginante speranza di poter fare, dire o cambiare qualcosa e quindi una situazione di passaggio che sarebbe comunque valsa la pena affrontare, le condizioni odierne sembrano costringere i teatranti e non solo a cercare invece da subito una formula stabile per risparmiare tempo ed investimenti. Questa considerazione lanciata dall’Assessore alla Cultura Carolina Taddei mirava a mettere in luce come non sia necessario rivaleggiare a tutti i costi con la perfezione che le opere prodotte nel passato proiettano nel nostro presente, bisognerebbe tornare a saper convivere con le imprecisioni tipiche dell’artigianato senza voler per forza contaminare i tentativi contemporanei con la precisa visione d’insieme che possono regalarci le opere ‘finite’. Bisognerebbe tenere presente, come avveniva negli anni Sessanta, l’importanza del processo da condividere e non solo quella del risultato da offrire. Certo è che oggi le parole condivisione e partecipazione non hanno più lo stesso significato, la tecnologia e le derivanti comodità hanno fatto acquisire a questi due termini delle sfumature solipsistiche legate ad esperienze non più direttamente confrontabili con quelle fatte dagli uomini che ci hanno, anche di poco, preceduti. Il festival ‹‹Orizzonti Verticali››, proponendo un confronto tra generazioni sia attraverso dibattiti sia attraverso una selezione di spettacoli che accostasse i lavori di veterani del teatro alle produzioni di compagnie formatesi più recentemente, si è costantemente interrogato sul rapporto che è possibile instaurare anche in situazioni limite tra territorio, residenti e persone di passaggio attraverso delle “incursioni” teatrali. Sia l’organizzazione degli eventi sia gli spettacoli non erano stati pensati per mimetizzarsi tra la folla e coinvolgere a sorpresa la cittadinanza, ogni progetto è stato proposto in maniera latente al pubblico, partecipare o semplicemente avvicinarsi ad uno spettacolo stava alla curiosità dello spettatore. Forse anche in questo atteggiamento si può ravvisare un’eredità lasciata dall’Avanguardia alle compagnie attuali: l’interesse per una tipologia di spettatori che non si accontenti di trovare un’immagine già pronta e tramandabile negli spettacoli ma che prenda parte, guardando, alla ricerca di una segreta tensione alla bellezza, sul palco e al di fuori di esso. Interesse esplicitato nel finale dello spettacolo dei Clinica Mammut in cui la donna, apparsa prima come la Vergine di Antonello da Messina, scivola ad afferrare le gambe di un Cristo-come-morto e chiede agli astanti, con la dignitosa compostezza di una Maddalena che avrebbe davvero qualcosa da raccontare nonostante rimanga immobile dentro un quadro e senza intenzione di uscirne: ‹‹Ti fai più vicino?...Ti fai più vicino?...Ti fai più vicino?...››.

 

 


Tuccio Guicciardini
Direzione artistica del festival
 
Tutte le foto sono di
Francesco Spagnuolo
 


Patrizia de Bari
Direzione danza




Carlo Infante
Curatore Urban experience

 

 

Il sito del festival Orizzonti Verticali è consultabile all'indirizzo http://www.orizzontiverticali.net/


 
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