Vi sono film emozionanti e film fatti per emozionare e The Look of Silence, nonostante si tratti di un documentario, è sia luno che laltro, anche perché tratta di un argomento tanto delicato quanto poco conosciuto o, meglio, poco ricordato come il sistematico sterminio di oltre un milione di “comunisti” attuato dalla dittatura militare indonesiana nella seconda metà degli anni Sessanta, che lo stesso Oppenheimer aveva già affrontato nel precedente The Act of Killing del 2012.
Qui il protagonista è Adi Rukum, un uomo che proprio a questo eccidio deve la sua esistenza, in quanto cercato e fortemente voluto dagli anziani genitori solo in seguito alla morte del fratello avvenuta per mano delle squadriglie governative nel 1967. Lui è un ottico ambulante che, partendo da questa paradossale situazione, inizierà un viaggio (anche professionale) che lo porterà a incontrare molti dei responsabili di quelle stragi e persino gli autori materiali dellassassinio del fratello.
Una scena del film
The Look of Silence è un film di non facile decifrazione, estremamente complesso, che pone molte domande anche di ordine puramente teorico a partire dal suo rapporto con il film precedente di cui ripropone esattamente lidentica didascalia iniziale sullorigine del massacro di così tanti civili. Qual è il significato di questo “doppio”, richiamato anche dalla struttura dei due titoli? Siamo di fronte a un sequel o, addirittura, a un remake? Oppure si tratta di due parti distinte di uno stesso progetto? Probabilmente Oppenheimer ha voluto semplicemente evidenziare come il punto di partenza dei due documentari sia lo stesso, ma cambi radicalmente il loro punto di vista, tanto da renderle due opere completamente autonome. In effetti lagghiacciante e spavaldo sfilare dei carnefici che contraddistingue The Act of Killing, viene qui sostituito dal metaforico peregrinare di un ottico che quei carnefici cerca di far tornare a “vedere” attraverso le sue lenti e, soprattutto, attraverso le sue domande su quegli anni, che spesso li colgono in contropiede e li fanno tornare a essere aggressivi, quasi come un tempo, non senza aver prima fatto provare loro quellattimo, più o meno lungo, di horror vacui che li lascia senza parole, cogliendo quello sguardo sospeso nel tentativo di ricomporre le loro idee, svelandone la loro primitiva banalità.
Il regista sfrutta tutta la potenza metaforica della famiglia di Adi mostrando la severa e ancora attiva lucidità della madre (che ricorda con precisione ogni attimo dellassassinio del figlio), che viene contrapposta alla totale infermità del padre ultracentenario, cieco che, invece, della sua incredibile storia non ricorda più assolutamente niente. La conservazione della memoria e del ricordo e la loro contestualizzazione storica, diventano così elementi di grande valore sociale e politico oltre che personale e ciò vale, paradossalmente, ancora di più per coloro che sono scampati a quella tragedia. In effetti i superstiti che Adi incontra nel suo percorso sembrano quasi voler eludere la rievocazione di quel periodo, apparendo impregnati di una sorta di fatalismo tragico che, dietro un velo di apparente riconciliazione, li stringe nella convinzione, tuttaltro che pacificata, che lunica vera giustizia possibile, alla quale i loro aguzzini non potranno sottrarsi, sarà soltanto quella divina, che inevitabilmente li punirà in eterno. In fondo fu lo stesso Gesù a dire ai suoi torturatori: “Il mio regno non è di questo mondo” (Giovanni, 18-36).
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