Corpi,
corpi e ancora corpi, così si può riassumere la filmografia di Shinya Tsukamoto, regista a suo modo
anomalo della generazione nipponica nata allinizio degli anni Sessanta (quella
di Takashi Miike e Sion Sono, per intenderci)
contraddistinta da un approccio bulimico alla produzione cinematografica (basti
pensare agli oltre 80 titoli girati da Miike dallinizio degli anni Novanta ad
oggi). I suoi “soli” 13 film in venticinque anni fanno di lui un regista molto
più riflessivo e meno istintivo dei suoi coetanei, questo anche perché affetto
da quella che in gergo viene chiamata “sindrome di Chaplin”, che lo porta ad
occuparsi personalmente di tutte le fasi della realizzazione delle sue opere:
dalla scrittura alla produzione, alla regia, linterpretazione, la fotografia, il
montaggio… fin dal primo film, quel capolavoro di cinema indipendente che è Tetsuo (1989), dove si mostra la
straziante mutazione di un corpo umano in una macchina assassina.
Una scena del film
Insomma
corpi, corpi e ancora corpi, mutanti, trasfigurati e straziati, mostra in Nobi (Fuochi nella pianura) tratto dal romanzo La guerra del soldato Tamura di Shoei Ooka , che era già stato
portato sullo schermo nel 1959 da Kon
Ichikawa con il titolo Fuochi nella pianura
(ma attenzione questo non è affatto un remake).
È lo stesso Tsukamoto a interpretare il sodato giapponese Tamura, che, alla
fine della seconda guerra mondiale, durante loccupazione di unisola delle
Filippine, si ammala di tubercolosi e per questo viene rifiutato dal proprio
plotone e dallospedale da campo, trovandosi a dover affrontare da solo
unagghiacciante odissea di fame e morte, per scappare da un nemico
(invisibile) che sta riconquistando i territori occupati.
Chaplin,
Carpenter, Kubrick, Spielberg ma
anche Brackage… questi sono i nomi
che vengono in mente guardando Nobi,
violento e incredibilmente originale apologo contro la più violenta e meno
originale delle pratiche umane: la guerra. È indubbiamente uno dei migliori
film di Tsukamoto, il suo naturale espressionismo tocca vertici poetici e al
contempo orrorifici, come raramente si è visto al cinema, riesce a piegare il
digitale alle sue esigenze saturando magistralmente i colori della natura in
cui è immerso il povero Tamura, dove i verdi, i magenta, i rossi, i gialli, gli
azzurri urlano il loro distacco dal nero in cui si consumano le orrende
battaglie del film. I soldati sono uomini che la guerra ha ridotto allo stato
sub-ferino, tanto da vedere i propri compagni addirittura come possibile cibo,
iperbolica trasposizione del hobbesiano “homo homini lupus”.
Una scena del film
E
poi corpi, corpi e ancora i corpi, sfregiati, decomposti, esplosi sono quelli
che Tamura (novello Charlot soldato)
trova lungo il suo cammino che presto si fa anche espiatorio (uccide senza
volere una ragazza) e passa attraverso il feroce agguato che linvisibile
nemico, nascosto dietro carpeteriani fari nella notte, tende al disperato
plotone in fuga, una battaglia la cui violenza e iperrealismo fa impallidire il
ricordo dello sbarco del Soldato Ryan.
Gli occhi tumefatti di Tamura si sbarrano increduli davanti a tanto orrore per
chiudersi improvvisamente nel sorprendente finale. Tsukamoto rende la macchina
da presa sua fedele complice alternando rigore a improvvisi e precisi raptus
che arrivano a, confondere, graffiare e incendiare lo schermo, come fuochi,
“fuochi nella pianura” di un cinema “invisibile” in Italia.
|
|