drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

Appunti da Londra sul teatro

di Annamaria Cascetta
  Appunti da Londra sul teatro
Data di pubblicazione su web 01/09/2014  

 

L’offerta teatrale a Londra è molto ricca, il pubblico è tanto e riempie tutte le sale. Risponde a ogni genere di rappresentazione: il musical (ce ne sono in cartellone una decina, molto attesi, come Matilda, realizzato dalla RSC, Mamma mia, The Lion King, The Fantom of Opera, Wicked, Billy Elliot) le grandi produzioni del National Theatre ( come Re Lear per la regia di Sam Mendes e l’interpretazione di Simon Russel Beale), dell’Old Vic (come The crucible di Arthur Miller) o di prestigiosi teatri storici come il Wyndham’s Theatre (che presenta il pluripremiato testo di David Hare, Skylight nell’interpretazione di due divi come Carey Mulligan e Bill Nighy), le produzioni o le ospitalità di spettacoli di alta ricerca come The valley of astonishment di Peter Brook e Marie-Hélène Estienne allo Young Vic, gli spettacoli dei teatri dei pub (che sono ormai numerosi: The Finborough, Etcetera Theatre, Hen and Chicken’s Theatre Bar, Landor Theatre, Old Red Lion Theatre, dove vedrò My girl 2 ,Tabard Theatre, Theatre 503, Gate Theatre, Upstairs at the Gate Theatre), le sale off.

 

Un fenomeno interessante, soprattutto per la nostra attenzione al “teatro performativo” è la tendenza chiamata dalla critica sia giornalistica, sia accademica “immersive theatre” che ha in questo periodo una “immensa” produzione nella Balfron Tower, l’edificio dismesso di Erno Goldfinger. Dura 12 ore e si ispira a Macbeth. La bibliografia e la problematica sul genere sono qui ben affrontati e coivolgono linee che noi abbiamo fiutato e presentato: il rapporto con la teoria della conoscenza attraverso la valorizzazione della corporeità richiamando Heidegger e la fenomenologia, il problema della ricezione richiamando Iser, il problema dell’osmosi/differenza rispetto alla rete…. E poi c’è adesso la tendenza scientista, il collegamento con le neuroscienze o le teorie cognitive che dobbiamo vedere se aiuta o no per capire il fenomeno.

 

Un utile articolo è il seguente: White Gareth, Immersive theatre, in “Theatre research international”, vol 37,issue 3, 2012, pp 221-235. Il problema che si pone è sapere se il termine indica un significativo sviluppo nel teatro contemporaneo. Lo affronta con strumenti teorici tenendo presenti i casi dei due gruppi londinesi Shunt 13 e Punchdrunk . Essi usano nei loro spettacoli interni dell’architettura e il pubblico si muove all’interno, esplora sia per “trovare” la performance, sia per diventare esso stesso talvolta performer (per esempio in certi incontri “a solo”, come è successo al critico). Ma il problema mi sembra più vasto e alla fine dell’articolo così sembra anche all’autore. Fino a che punto questa modalità giova a una esperienza intensa e a un acquisto profondo del senso?

 

Il punto di vista sui testi che vanno in scena a Londra in questo periodo sembra generalmente essere moderno e pragmatico. I registi, gli interpreti sono attenti a far parlare i testi, sia classici, sia contemporanei, sia inglesi, sia americani (e qui il teatro è perlopiù teatro dei testi e la distinzione rispetto a musical, comedy cioè humour, dance è marcata anche nella promozione e nella informazione) dei problemi del contesto attuale rapportati alle situazioni interpersonali concrete, senza ideologia, con poca filosofia e simbolismi, con poca autoreferenzialità, formalismi e accademismi. E’ questo il senso qui del “politico”. Fra i temi che passano nei testi in cartellone: il lavoro sociale rispetto al lavoro di successo e dei soldi e i risvolti nella costruzione della persona e nei rapporti anche di coppia (es.: Skylight di David Hare, es. My Girl 2 di Barrie Keeffe che sto per andare a vedere), il mondo dei ricchi nell’età di Cameron e del dominio della finanza, il disagio dei migranti, la vecchiaia con la demenza e il fine vita (es. Dream of perfect sleep di Kevin Kautzman), le cose da salvare dopo la catastrofe possibile, la tentazione di fuga dalla mediocrità nella bugia (Billy Liar di Willis Hall e Keith Waterhouse)… Una buona fonte di informazione che si può seguire anche in Internet sono le recensioni di “The Guardian” il cui critico di notevole esperienza è Michael Billington.

 

Ho visto il Re Lear, di cui sopra, al National Theatre. E’ una lettura moderna sia dal punto di vista dell’ambientazione, sia dal punto di vista dell’interpretazione della figura di Lear da parte del grande Russel, anche se non ne sacrifica la complessità.

 

Sotto il primo aspetto la vicenda non è ambientata in un regno vero e proprio della cui divisione e perdita si tratta, ma in una sorta di impero finanziario. E’ la storia di un “capobanda” che se allora dominava terre e uomini e disponeva della sua famiglia, oggi domina un impero del denaro, un consiglio di amministrazione, un mondo di managers, di intrighi, di ricatti, di violenza. Il passaggio dalla dimensione del potere economico a quella del potere politico porta “naturalmente”al fascismo evocato nei richiami delle divise nell’ultima parte della messa in scena, vicina alla catastrofe. Ma non è una semplificazione facile. L’insieme è armonioso e lo sviluppo dei segni motivato.

 

Sotto il secondo aspetto Lear è fortemente smitizzato. Sappiamo che questa è una linea dominante nelle riletture contemporanee dei personaggi eroici, mitici, classici. Vengono abbassati, ricondotti a misura umana, se ne svelano i limiti, si fanno scendere dal piedestallo delle statue che sono state costruite per loro (c’è qui una scena in cui Lear curvo e sciancato con quel suo tic da anziano di grattarsi la gamba vicino al sedere, sta sotto la sua statua, alta, imponente, solenne). Come sappiamo questa linea talvolta porta a estrarre una maggiore evidenza di umanità positiva, costruttiva, progressiva per l’uomo che si sforza di costruirsi imparando (è la linea ad esempio di Ulysses di Wilson) talaltra porta a smascherare una umanità meschina, di poco valore, che non impara nulla e distrugge.

 

Mendes e Russel danno a Lear fondamentalmente questa impronta. Mendes è un interprete superbo nel rappresentare questo aspetto di Lear, uguale a se stesso dall’inizio alla fine in fondo, col registro dominante dell’ira, dell’arroganza, del narcisismo. Non c’è empatia, nemmeno in fondo nel momento finale della sua relazione con Cordelia morente e morta. Non suscita pietà, com-passione, ma antipatia. Non è stato un errore di valutazione il suo in buona fede, ma una maniacale arroganza del potere che crede di poter mantenere scaricando le responsabilità. E’ stato lui il perno di quel mondo fatto di avidità (è il valore dominante), organizzato su questa misura cui tutti si adeguano coi corrispondenti comportamenti: ipocrisia, calcolo, ricatto, spietatezza, “conspirancy”. Posture, gesti, costumi, voce, scena sono tutti coerenti. Russel è un Lear tarchiato, curvo, massiccio, un grumo di energia che si sfoga più che esprimersi. Rinvio a una scheda più analitica e al materiale del programma di sala e forse in internet per osservazioni puntuali e immagini.


Un'immagine di The valley of astonishment di Peter Brook. Foto di Simon Annand


Ho visto anche, come ho detto, The valley of astonishment. E’ un vero gioiello che per il momento so che passerà in Italia a Perugia in autunno. Penso che costituirà un capitolo del mio nuovo libro insieme al già studiato Je suis un phénomène di cui rappresenta una continuazione, uno sviluppo e anche una ben più matura, profonda e umana riflessione.

 

Formalmente rientra nella poetica cara a Beckett, e costante in Brook del “less is more” per una grande profondità e diversi strati di senso oltreché per una finezza di emozione nella estrema leggerezza di tocco.

 

I tema e la vicenda sono sempre quelli della scoperta di un cervello che funziona in modo eccezionale rispetto alla cosiddetta normalità (qui si tratta della sinestesia: la messa in atto contemporaneamente di più sensi, l’associazione alla parola o ai numeri dell’immagine e la conseguente straordinaria memoria), la sua inadeguatezza alla vita normale, che porta il soggetto a rientrare nei fenomeni e a essere oggetto di indagini mediche o di essere ingaggiato per i più dozzinali e popolari spettacoli come quelli del varietà o dei prestigiatori. Ma nessun aiuto può venire da questa prospettiva. Ciò che conta nel finale molto poetico è che quando tutto tace, tutto scompare, tutto l’affollamento di immagini, suoni, numeri, parole, divise…svanisce in un mondo che sembra oppresso dal non poter dimenticare si possa sentire il rumore di una goccia di pioggia che cade, una musica che viene da lontano come la melodia suonata dal musicista giapponese che con l’altro musicista ha accompagnato i momenti dello spettacolo (che dura in tutto 75 minuti) e ora viene in primo piano da solo e suona.

 

La ricezione dello spettacolo è molto intima e intensa: gli spettatori (il teatro alle due del pomeriggio di un martedì è pieno) siedono sulle panche digradanti a rettangolo intorno alla scena che ha la solita semplicità e i soliti elementi di Brook (tappeto, sedie, angolo per i due musici) e agli attori splendidi che sono tre e passano con scioltezza e chiarezza da un ruolo all’altro. I dettagli sono nella mia scheda. In un paio di momenti (quello del prestigiatore ad esempio) sono coinvolti.

Se in Je suis un phénomène prevaleva il momento polemico e la rappresentazione sarcastica dei medici e dell’apparato dello spettacolo che sfruttavano il “fenomeno” (dietro c’era una storia vera), qui lo sguardo del vecchio Brook e della sua fedele collaboratrice è pacificato, comprensivo. Anche i clinici sono sensibili, impotenti a capire scientificamente (nonostante la messa in campo dei loro strumenti), ma disposti a lasciarsi prendere dalla bellezza di quel verso, di quella musica… di cui stanno studiando il processo di memorizzazione eccezionale nei pazienti dalla memoria fenomenale.

 

Si aprono tanti fronti di lettura:1) il performativo (sul piano tecnico); 2) la capacità del teatro di “dare la parola a chi non ce l’ha”, cioè non solo gli emarginati della povertà o del degrado, ma anche chi si trova in situazioni liminali, o a-normali; anche le arti figurative hanno qualcosa del genere (ho visto alla Tate Gallery un Blu film che rappresenta il colore attraverso cui l’artista ormai terminale per effetto della malattia e delle medicine, vede il mondo e ricorda la sua vita); 3) l’accoglienza nel teatro di personaggi che tematizzano l’affinamento della percezione e dei sensi in un’epoca che rischia di ottunderli nel rumore e nella mediazione (era già il tema di Monk, Wilson…i padri storici, quando il problema cominciava a presentarsi, ma non con le dimensioni di oggi); 4) la memoria, la frenesia del voler tutto ricordare e archiviare e il bisogno di dimenticare (credo ci sia anche una componente autobiografica dell’artista ormai quasi novantenne la cui mente è affollata di memorie di immagini, di associazioni e che sente con sollievo, ma anche con tremore l’imminenza dell’oblio o dell’ottundimento); 5) la seduzione che oggi hanno gli sviluppi scientifici o le promesse scientifiche intorno al funzionamento del cervello (le neuroscienze, i recuperi delle disabilità attraverso fisioterapie che agiscono sul cervello…), ma anche il rischio di distrarsi da nucleo e di non saper più ascoltare la “poesia”; 6) Lo spettacolo verrà filmato e farà parte del Joung Vic Archive. A proposito teniamo presente il Digital theatre- Victoria & Albert Museum, Cromwell Road, London SW72RL tel. 02079422000.

 

Londra, 3 luglio 2014.

 

Ho visto anche My Girl 2 di Barrie Keeffe all’Old Red Lion Theatre della Dilated Theatre Company (una compagnia socialmente molto impegnata e attenta alla valorizzazione di talenti emergenti) nella interpretazione eccellente di Alexander Neal e Emily Pluntree.

 


Un'immagine di Emily Putree in My Girl 2


E’ un’esperienza speciale: nell’antico pub, mentre al piano di sotto sono in funzione gli schermi che trasmettono le partite del campionato mondiale di calcio, al piano di sopra cui si accede da una scaletta, meno di venti spettatori assistono alla performance nella pomeridiana delle ore quattordici. La piccola sala può contenere cinquanta spettatori al massimo. Gli spettatori sono disposti su due lati intorno alla scena realistica che rappresenta l’interno della modesta casa di Anita e Sam. Sembra di esservi dentro e la recitazione è così piena di naturalezza e verità che ci si sente non solo molto coinvolti, ma persino un po’ imbarazzati dal guardare nell’intimità di una situazione di coppia e di problemi esistenziali, ma ci si sente anche fortemente complici.

 

Sam è un assistente sociale. Ha studiato all’Università per svolgere questo lavoro altruista, ma in tempi come questi (il cenno al Regno Unito di Cameron è esplicito) non è facile ottenere risultati e ricavare entrate sufficienti per mantenere una famiglia con una bambina e un secondo figlio in arrivo. E’ la crisi. Nel serrato dialogo fra i due passano i problemi privati, di coppia, di contesto in una fluida complessità di sentimenti, aspirazioni, frustrazioni, contraddizioni. L’orizzonte piccolo borghese che Anita difende con fermezza e furbizia si scontra con l’idealismo un po’velleitario e con la debolezza di Sam e alla fine prevale. E’ per Sam una dolorosa rinuncia e sconfitta, ma una necessaria integrazione nel piccolo mondo della famiglia che si trasferirà nella contea con un lavoro modesto, ma solido, senza ambizioni e ideali, al servizio di anziani “signori”.

 

Questo testo si può collegare a Skylight di David Hare in scena al Wyndham’s Theatre nell’interpretazione di Carey Mulligan e Bill Nighy. Grande teatro. Opera di enorme successo internazionale. Interpretazione magistrale per un grande pubblico. Gli ingredienti sono analoghi: una storia d’amore nel contesto di vite professionali, condizioni sociali e contesti che incidono profondamente sul modo di essere e le scelte definitive dell’esistenza dei protagonisti. Il testo di Hare è un capolavoro di abilità, di tecnica, e anche di acume sia introspettivo, sia di analisi delle problematiche più generali in cui sono iscritte le vicende private dei due personaggi.

 

Tom e Kira sono rispettivamente un’insegnante trentenne che opera in una zona difficile della Londra periferica dove l’inglese è la seconda lingua e un manager cinquantenne di successo che ha costruito un impero nella ristorazione. Si ritrovano nella casa di lei (una casa male in arnese, per scelta) dopo qualche anno da quando lei se ne è andata dalla famiglia e dall’azienda di lui dove era stata accolta con simpatia e stima per le sue qualità e il suo charme. Anche la moglie di Tom le era stata molto affezionata. Ma ormai lei è morta di cancro dopo una lunga malattia che Tom ha cercato di rendere più sopportabile facendo costruire un costoso skylight sul soffitto della sua camera di dolore da cui poter vedere quello che desiderava. Nel lungo dialogo a due riaffiora la loro storia d’amore durata sei anni finché Kira, dopo la scoperta da parte della moglie della relazione, non se ne è improvvisamente andata, come era nei patti, forse, tra i due. Si riaccende per un momento la passione, ma quel che prevale è l’analisi, lo scavo lucido e spietato delle motivazioni psicologiche di quello che è accaduto, delle dinamiche di quella relazione triangolare, ed è lo scontro non solo fra due caratteri, ma fra due stili di vita, fra due diverse estrazioni sociali che hanno alimentato gli orientamenti successivi. Si scoprono reciprocamente, ma si fanno del male ancora in un gioco al massacro che sembrerebbe non poter che finire male in quella notte di neve e infatti Tom se ne va. Ma la quarta scena con il ritorno da Kira del giovane figlio di Tom ormai orfano della mamma potrebbe imprimere un svolta con leggerezza e umorismo.

 

Da una parte sta l’orgoglio dell’imprenditore, uomo d’azione che fa sì che le cose accadano, che crea lavoro che prima non esisteva; dall’altra sta la dedizione della lavoratrice sociale che opera nel disagio sociale, che sfida dure situazioni e cerca di creare condizioni in cui i ragazzi disagiati sentano di poter crescere. Ma le cose non sono così semplici o così semplificate: da un lato sta il maschilismo, il narcisismo, dall’altra sta l’ostinato o caparbio femminismo nutriti di ideologia. Andando più a fondo, emergono ben altre ragioni: lei appartiene alla middle class, un padre ricco e egoista, vuole scappare e studiare, lui è di modesta estrazione, vuole la rivalsa, vuole farsi da sé nell’azione e nel comando; ma soprattutto c’è il groviglio del loro amore clandestino: lui vorrebbe che la moglie, che signorilmente ha dichiarato di accettare la situazione e ritirarsi, lo perdonasse, ma scopre che non l’ha mai perdonato, è lui a fare in modo che lei scopra per vigliaccheria, per furbizia, per forzare la situazione a suo vantaggio; lei, Kira, pur amandolo, sente che non potrà mai fidarsi e si segrega, si punisce, scappa ancora una volta. Il dialogo è un serrato capolavoro che incalza e toglie il fiato.

 

Pur essendoci bel altro, il tema del lavoro ha un suo peso notevole e il lavoro si può come detto collegare a altri in scena: My girl, The Quant, Wanderland, sullo sciopero dei minatori nell’età della Tatcher…

 

Una stroardinaria, inattesa esperienza è stata quella di assistere a una replica di Matilda , il musical tratto dal libro famoso scritto dall’ormai settantenne Ronald Dahl per bambini, ridotto da Dennis Kelly e musicato da Tim Minchin. Nell’attuale versione è andato in scena per la prima volta a Broadway, nell’aprile 2013. E’ stato pluripremiato.

 

Ma quel che mi interessa soprattutto è che si tratta di un avvicinamento molto interessante e molto riuscito fra un genere “commerciale” per vasto pubblico come il musical e un teatro di alta qualità, formatosi nella tradizione di Shakespeare, del teatro di ricerca contemporaneo e delle tecniche più collaudate del grande teatro: la Royal Shakespeare Company. Non per nulla l’azienda della famiglia Dahl ha sempre rifiutato la riduzione in musical di questo testo finché non è arrivato il momento della RSC.

 

Credo che con Cafe Muller di Pina Baush rientrerà in un capitolo del mio nuovo lavoro sull’Uomo in performance.

 

Ho visto lo spettacolo nello storico teatro Cambridge di Londra, affollato di centinaia di spettatori fra cui, stupendo, tanti tanti bambini, molti con gli abitini da sera, molti, accompagnati dalle loro maestre, con le divise dei colleges. Una composta allegria, una divertita serietà come quella che caratterizzava la scena.

 

L’arcoscenico, aggettante era tutto tappezzato di scatole colorate, qua e là si leggevano le lettere: M A T I L D A.

 

Talvolta nello svolgersi dell’azione, sul ritmo della musica, delle canzoni, della danza e con l’aiuto di luci stroboscopiche, stage e audience vibravano all’unisono (i piccoli spettatori soprattutto battevano a ritmo le mani, partecipando intensamente alle vicende della piccola Matilda, eccezionale e contemporaneamente come loro.

 

Il racconto di Dahl, ironico, avvincente, è una satira mordente del sistema educativo che reprime e non riconosce la creatività , tutto schemi e disciplina, dell’ambiente familiare ottuso e piccolo borghese, chiuso nella sua routine, nei suoi meschini imbrogli, nelle sue grossolane vanità e non vede quel che di grande gli passa accanto. La storia, che è anche storia morale, appunto, dipanata in una scrittura vivace e impietosa, si cala con leggerezza e eleganza nei “racconti” che scandiscono le scene del musical. Il montaggio ha la scioltezza della grande scuola teatrale.

 

Molte trovate provengono dal teatro circense, dal teatro ombre, dal teatro dei pupi, momenti della ambientazione richiamano a certe soluzioni di Kendridge, tutte passate attraverso la stilizzazione di molto teatro shakespeariano, per esempio la famosa messinscena di Brook del Sogno di una notte di mezz’estate, altri momenti richiamano film famosi come L’attimo fuggente.

 

Ricordo, a memoria, ma il lavoro merita un’analisi puntuale: la lezione di aritmetica e di spelling nella classe dei primini, la danza-ginnastica, l’esibizione grottesca della gigantessa-direttrice ex atleta Miss Trunchbull, gli scherzi al padre scioccone o alla direttrice tiranna (il cappello che rimane attaccato alla testa con la colla, l’animaletto nella brocca dell’acqua, la brillantina con la tintura verde ), le punizioni sadiche che si tramutano in prove di lotta all’ingiustizia e di dignità, il quadrato disegnato a terra che allude alla piccola casa di Miss Honey dove Matilda andrà a abitare dopo che il genitore venditore truffatore di macchine usate dovrà andarsene per scappare dalla mafia russa, la danza sull’altalena sul tema della crescita dove il diventare adulti è reso con il venire avanti di ragazzi sempre più grandi che dondolano sulle loro altalene sul ritmo della canzone “When I grow up”.

 

Senza retorica e senza pesantezza, il messaggio passa efficace. La favola per bambini è un modo per guardare con la straordinaria chiarezza e letteralità dei bambini il mondo così spesso illogico e brutale dei grandi e smascherarlo.

 

E poi c’è quella grandiosa trovata dell’immensa biblioteca dove la minuscola Matilda, aiutata dall’intelligente Mrs Phelps, passa le sue ore mentre gli orizzonti della sua mente si dilatano e lo spazio fra gli scaffali si popola di mondi e di presenze. Una affascinante apologia della cultura, bene raro nella casa e nella scuola, congelato in un luogo deserto o nella mente di un piccolo lettore solitario. Grande.

 

E infine la festa del saluto. Le decine di bambini e adulti coinvolti nel lavoro escono a prendere l’applauso sui loro monopattini. Da ultima la piccola Matilda, molto professionale, composta, elegante, seducente.

 

Siamo ancora strabiliati del training e del coach che conduce i bambini a questi risultati.

 

 


Locandina di Skylight di David Hare


 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013