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Caserma e postribolo

di Paolo Patrizi
  Die Soldaten
Data di pubblicazione su web 17/07/2014  

 

Se La forza del destino e Les contes d’Hoffmann hanno fama di opere iettatorie cosa bisognerebbe dire di Die Soldaten, tratta da un dramma del più “maledetto” e autodistruttivo tra i rappresentanti dello Sturm und Drang quale fu Jakob Lenz e messa in musica, a metà degli anni Sessanta del secolo scorso, dal suicida Bernd Alois Zimmermann?

 

Rifiutata da Wolfgang Sawallisch – che avrebbe dovuto dirigerne la première – perché giudicata «irrappresentabile», poi revisionata (ma solo molto relativamente semplificata) dall’autore, infine concretizzatasi in uno dei maggiori succès de scandale del teatro musicale tardonovecentesco, Die Soldaten subì il tramonto comune a tante partiture di costruttivismo postschoenberghiano (ma con il surplus, qui, di un’anarchia visionaria che non rientrava nelle qualità di Schönberg). Eppure, in un’ottica di corsi e ricorsi storici, oggi viviamo una Soldaten-renaissance: da Salisburgo alla Scala (dove approderà la prossima stagione), da Monaco a Zurigo l’opera di Zimmermann torna a far discutere il pubblico, se non a conquistarne cuore e cervello; e appunto in coproduzione con la città svizzera è andato in scena quest’allestimento alla Komische Oper di Berlino – il più vitale, oggi come oggi, dei tre palcoscenici operistici della capitale tedesca – affidata a un altro artista con fama di “maledetto” come il regista Calixto Bieito.

 


Foto di scena di Monika Rittershaus.


Certo: al contrario di Lenz (che pagò in prima persona la sua diversità di scrittore fuori dal coro) e Zimmermann (stimato nei cenacoli musicali, ma lasciato ai margini del “sistema”), Bieito è un “maledetto” costruito a tavolino e abbondantemente coccolato dalla critica. Tuttavia – con la frantumazione delle tre unità aristoteliche, la costruzione di un tempo “interiore” antitetico al normale andamento diacronico operistico, il dispendio dei materiali sonori, la molteplicità degli stili musicali adottati – Die Soldaten è un’opera utopistica e di fatto, come pretendeva Sawallisch, irrappresentabile: qualunque messinscena può portare a solo a un’ipotesi d’interpretazione tra le molte possibili. Bieito imbocca la scorciatoia, puntando tutto su sesso e violenza (strada fin troppo didascalica, per un’opera dove il non detto conta più dell’esplicito): ma bisogna riconoscere che, entro tale griglia, impagina uno spettacolo di notevole efficacia.

 

Se il carosello di torture e umiliazioni sessuali ricalca un immaginario erotico militar-fascista occhieggiante a Salò di Pasolini, la cifra visiva è quella di certi film splatter (il sangue scorre a fiumi) e del fumetto erotico d’autore (con qualche omaggio a Eric Stanton). E così facendo viene meno, per lo spettatore, quel senso d’inquietudine kafkiana che si ha davanti al precipitare in un incubo senza un perché: ragazza leggera ma nulla più, Marie si trasforma quasi senza accorgersene in «puttana da soldati», ma la crudezza della messinscena toglie alla caduta della protagonista quel retrogusto metafisico impresso da Zimmermann. Anzi: il video, ripetutamente proiettato, che ce la mostra da bambina – occhi incontaminati dell’infanzia, ma rossetto da baby squillo – ne anticipa il destino e rende assai più prosaico l’incontrollabile degrado che la travolge. E pure altri personaggi appaiono alterati: la sorella di Marie, suo alter ego più indurito ma meno sventato, qui fa anche lei una fine postribolare; e la contessa de la Roche – borghese e perbenista, ma non priva di pietas – diventa un’alcolizzata pansessuale che, dopo aver sculacciato con compiacimento non del tutto materno il figlio adulto e bamboccione, concupisce la protagonista avviandola al marciapiede.

 


Foto di scena di Monika Rittershaus.


Il matriarcato, d’altronde, sembra nel mirino della regia: se la contessa è l’emblema di un puttanesco mammismo delle classi alte, la più dimessa – ma non meno devastante – madre del protagonista maschile (l’omicida-suicida Stolzius: un caso clinico dove i genitori qualche responsabilità devono pur averla…) sembra invece una Mamma Lucia del nord, con il negozio di stoffe al posto dell’osteria. Ne sortisce un teatrino dell’eros compulsivo con figure tutto sommato più caratterizzate di quelle, spesso stilizzate fino all’irrigidimento, che scaturiscono dalla partitura: ma se con Bieito i singoli ruoli hanno tutti un loro rilievo, è proprio il personaggio collettivo dei soldati a non convincere, con i suoi rituali animaleschi e le grida che si giustappongono alla musica. Laddove l’antimilitarismo dell’opera, e della pièce di Lenz, è tanto più feroce quanto più algido.

L’apparato scenografico, realizzato da Rebecca Ringst, si sostanzia in un’enorme griglia metallica: il che omogeneizza un’azione in realtà frantumatissima, e imprime un andamento narrativo “orizzontale” dissonante con quella “circolarità temporale” vagheggiata da Zimmermann. La pletora delle sonorità impiegate dall’autore – orchestra sulla scena, band jazzistica, assembramenti di percussioni, inserti elettronici – offrono però il destro per ridisegnare gli spazi: gli orchestrali sul palco in tuta mimetica militare sono un efficace colpo d’occhio, e la musica sembra diventare a sua volta personaggio. Ma, al di là del dato visivo, a essere ottimo è il lavoro dell’orchestra in sé: alle prese con una partitura dove ogni scena è costruita attraverso forme cristallizzate (ciaccona, toccata, notturno…), il direttore Gabriel Feltz restituisce con chiarezza il senso della struttura, senza però indugiare nella paratassi o scantonare nel calligrafismo. E, al contrario del regista, non va per accumulo ma per sottrazione: la sua lettura non evita certo le masse d’urto fonico, ma rende giustizia in primo luogo alla distillata rarefazione della scrittura di Zimmermann.

 


Foto di scena di Monika Rittershaus.


Costituito da formidabili cantanti-attori, capaci di recitare con il corpo senza abiurare alle ragioni della vocalità, il cast appare concentratissimo e felice: si trasmette, dal palcoscenico alla platea, l’orgoglio degli artisti di partecipare a uno spettacolo che è una sfida con se stessi. Cantare seminuda e a quattro zampe deconcentrerebbe la vocalista più ferrata, ma Susanne Elmark non perde un colpo: impeccabile nel suo canto di coloratura postmoderno, con uno strumento acuto e flessibile da soprano leggero capace all’occorrenza d’inauditi affondi drammatici, trascolora da un’insipienza fanciullesca a un degrado incredulo e sbigottito, costruendo un personaggio di memorabile appeal scenico e pari icasticità canora.

È questa una capacità non limitata alla protagonista: le frastagliatissime prescrizioni vocali che Zimmermann imprime a ogni personaggio («contralto profondo», «baritono acuto giovanile», «baritono eroico», «tenore acutissimo»…) vengono onorate al millimetro da tutti gli interpreti. Impossibile citarli uno a uno, dato che la locandina conta più di venti ruoli: ma restano formidabili la sensualità torbida e magnetica, unita a uno strumento da Falcon capace di circumnavigare il registro sopranile come quello di mezzosoprano, con cui Noëmi Nadelmann plasma la contessa de la Roche; la maternità insieme viscerale e marmorea promanante dalle risonanze contraltili di Christiane Oertel; la franca e lirica baritonalità di Tom Erik Lie, uno Stolzius perdente, antieroico, ma meno crudamente psicopatico di quanto il testo suggerirebbe, e con il quale non è difficile entrare in empatia.

 

L’Oscar per il migliore non protagonista, però, andrebbe distribuito ex aequo alla coppia formata dal capitano Pirzel di Hans Schöpflin e dal cappellano militare Eisenhardt di Joachim Goltz: tenore acuto (ma con valenza grottesca) l’uno, baritono robusto l’altro (il cui Libera nos a malo campeggia nell’apocalisse conclusiva), entrambi di straordinaria pregnanza dialettica nei loro duelli verbali. Che fra l’altro ricalcano, e neppure troppo alla lontana, quelli tra il Capitano e il Dottore nel Wozzeck.

 

 

Die Soldaten



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