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I ragazzi dello zoo di Ulm

di Paolo Patrizi
  Serse
Data di pubblicazione su web 15/07/2014  

 

Serse sta a Händel come Semiramide sta a Rossini. Qui come là un passo provocatoriamente all’indietro, un ritorno al passato – il Seicento italiano per il sassone, il più vertiginoso barocchismo vocale per il pesarese – chiamato a suggellare la fine di una stagione creativa e l’apertura di una nuova frontiera: dopo Serse, Händel (a non considerare l’appendice di Deidamia) chiuderà con il mondo del melodramma, per gettarsi a capofitto in quello dell’oratorio; così come Semiramide rappresenterà per Rossini, ormai proiettato verso Parigi, il pas d’adieu al melodramma italiano. I risultati saranno assai diversi (monumentale il capolavoro rossiniano, all’insegna del divertissement il Serse), ma il comune gusto per un congedo stilisticamente retrodatato resta indubitabile: ricorrendo addirittura, per quanto riguarda Händel, a un libretto paradigmatico del diciassettesimo secolo come Xerse di Nicolò Minato musicato da Cavalli, sia pure filtrato dalla revisione – assai meno macchinosa – che Silvio Stampiglia ne aveva poi fatto per Bononcini.

 

Tuttavia, ottant’anni e passa non trascorrono senza che muti la ricezione degli autori e del pubblico. Quella che per Minato e Cavalli era una trama umoristico-mitologico-idilliaca ben consona al melodramma degli albori si trasforma, con Händel, in una commedia galante e cortigiana, popolata da personaggi blandamente sentimentali, frivoli e un po’ isterici: qualche momento pensoso, a cominciare dal celeberrimo Ombra mai fu, e occasionali spunti politico-ideologici come l’utopia del ponte chiamato a unire Europa e Asia (Serse, non dimentichiamolo, è il re dei persiani), non intaccano l’antipsicologismo dell’impianto. L’allestimento proposto a Ulm – la più “bavarese” delle città del Baden-Württemberg – lascia dunque scivolare via queste sollecitazioni periferiche, impaginando invece una commedia frenetica come una folle journée mozartiana e volgarotta come la vita di tutti i giorni, popolata da una sorta di zoo umano: se la principessa Romilda è trasformata in libellula, Arsamene – il personaggio di gran lunga più nobile e signorile di tutti – è truccato come un yeti, proprio per sottolineare la sua diversità.
 


Un momento dello spettacolo.
Foto di Jochen Klenk

 

Poi, certo, non tutte le biglie vanno in buca e non tutti i campanellini squillano a dovere in questo flipper montato dal regista Matthias Kaiser e dal Dramaturg Benjamin Kunzel, dove l’inesausto rimpallarsi d’innamoramenti e disamoramenti gira anzi un po’ a vuoto: l’avvio della messinscena, con una coppia di valletti muti che improvvisano una partita a scacchi con pupazzi replicanti le fattezze dei sette personaggi (plastici e misurati i due mimi Anne Platzdasch e Peter Reinhard), sembrerebbe un’ottima maniera per illustrare questo teatrino dell’amore artificiale e compulsivo, ma è uno spunto che gli autori dello spettacolo lasciano cadere quasi subito. Né la scenografia fumettistica e modulabile di Marianne Hollenstein – tanti diversi elementi che si alternano o giustappongono in un gioco di scatole cinesi – è una bussola per orientarsi nell’incapricciata geografia sentimentale raccontata da Händel. 
 


Amastre (I Chiao Shih) e Serse (Kinga Dobay).
Foto di Jochen Klenk

 

Il Serse viziato e teppistello, in acconciatura punk-settecentesca, portato in scena da Kinga Dobay appare in linea con questa fauna di animali metropolitani. Ma attenzione: se la cantante-attrice si presta con duttilità al disegno registico, la vocalista è ferratissima. Il mezzosoprano ungherese, da ottima professionista, non antepone la propria virtù canora alle esigenze dello spettacolo e, anzi, si presta a minimizzare l’effetto mirabolante di certe cadenze riconducendole – come talvolta qui vuole la regia – alla dimensione di mera gag vocale: ma il canto di agilità è manovrato con estrema perizia (e, all’occasione, giusta insolenza); l’esecuzione di Ombra mai fu ha un tono limpidamente arcadico, senza bisogno di affettazioni nostalgiche; e se negli affondi più gravi la voce perde un poco in timbratura, è comunque difficile onorare in tutta la sua estensione un ruolo concepito per la voce-monstre del castrato Caffarelli.

 


Serse (Kinga Dobay) e Arsamene (Kwang-Keun Lee).
Foto di Jochen Klenk

 

Un Serse mezzosoprano, anziché controtenore, è tollerato anche dai talebani della filologia: mentre saranno in molti, pure tra i non-puristi, ad arricciare il naso davanti a un Arsamene baritono, come si è scelto di fare a Ulm. Tuttavia, se c’è un’opera dove il purismo ha un peso relativo questa è proprio Serse: davanti alle Ombra mai fu stupendamente antifilologiche di Caruso, Gigli e Pavarotti anche il più agguerrito cultore delle edizioni critiche dovrebbe domandarsi «Ma se avessero ragione loro?»; e, quanto, alla supposta incompatibilità tra la realistica voce di baritono e la stilizzata tavolozza timbrica di Händel, basterebbero i contributi haendeliani di Tibbett (Semele) e Fischer-Dieskau (Giulio Cesare) per rivoluzionare tale luogo comune. Al di là delle memorie storiche, sta poi di fatto che il sudcoreano Kwang-Keun Lee ha emissione morbida, “legato” fluido, accento nobile nello sdegno e patetico nella perorazione amorosa. Insomma, ciò che il personaggio perde – inevitabilmente – nella dimensione languida viene risarcito, con gli interessi, sul piano dell’evidenza teatrale.

 


Elviro (Emanuel Pilcher).
Foto di Jochen Klenk

 

Sorelle rivali in amore, Romilda e Atalanta mostravano qualche similarità anche in palcoscenico, grazie a due voci sopranili entrambe di scarso peso ma ben manovrate (Katarzyna Jagietto e Maria Rosendorfsky); laddove Amastre, donna guerriera in incognito sulla scia di Clorinda o Bradamante, poteva contare sulla vocalità meno omogenea, ma di assai maggiore sostanziosità drammatica, del mezzosoprano I Chiao Shih. Elviro – il servo sciocco cui sono affidati i siparietti comici – aveva in Emanuel Pichler un buffo di ragguardevole dizione e idiomaticità: e se non sempre il personaggio emergeva in modo singolare era perché la regia, infarcendo di gag anche gli altri ruoli, finiva con disinnescare quello che doveva essere il baricentro umoristico della vicenda. Di più deboli qualità musicali l’altro basso, Dan Lee, chiamato a tratteggiare un padre più arrampicatore sociale che genitore amoroso.

 

Da un Serse senza troppe preoccupazioni filologiche c’è da aspettarsi un’ornamentazione sfoltita e sonorità tutt’altro che “antiche”: e su questa linea si attesta la direzione di Daniel Montané. Ma la sua lettura vivida e contrastata, a tratti perfino drammatica, trae grande espressività dagli ottimi strumentisti dell’Orchestra Filarmonica di Ulm. E il “continuo” (qui formato da fagotti, violoncello, liuto e cembalo) ha uno spessore e una singolarità d’impasti che non sarebbero dispiaciuti neanche a Händel.

 

 

Serse
Opera in tre atti


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