«Sur la place chacun passe, chacun vient, chacun va» canta il coro allalzarsi di sipario della Carmen: e la cosa spesso offre il destro per ammannire bozzetti oleografici e scenette riempitive, allinsegna di un horror vacui zeffirellesco e compulsivo. Certo, non è necessario mettere in naftalina nacchere e navaja, corride e seguidilla: Carmen è anche tutto questo. Ma pretendere che si riduca “solo” a questo è un po come identificare lItalia con la pizza e il mandolino.
Un momento dello spettacolo. Foto di Katarzyna Zalewska
Negli ultimi tempi lopera di Bizet è stata spesso sottratta – registicamente parlando – allo stereotipo della Spagna turistica: così come, già negli anni Settanta, direttori e cantanti avevano iniziato a diffidare delle Carmen troppo turgide e calienti, per riappropriarsi della dimensione sfumata e “francese” della partitura. Non si era però ancora vista, forse, una messinscena così coerente nellasciugare i luoghi comuni di questopera senza rinnegarli: raccontando, insomma, una storia di passioni e tradimenti come tante altre, dove la dimensione etnico-geografica non è più la ragion dessere del dramma. Semmai, diventa la lente che spiega le motivazioni dei personaggi.
Ne siamo debitori a un teatro – lOpera di Poznan – lontano dal raggio dosservazione della stampa italiana, ma che i nostri critici farebbero bene a monitorare: non solo per limmensa portata storica che la civiltà teatrale polacca ha sempre avuto, ma per loriginalità della programmazione. Da un paio danni, infatti, il Teatr Wielki di Poznan cerca di coniugare il mondo del melodramma con i maggiori nomi internazionali del teatro di ricerca: e tra i frutti più interessanti ci sono stati un Don Giovanni affidato a Pippo Del Bono e un Parsifal firmato da Kirstern Dehlholm e il collettivo danese Hotel Pro Forma. Per Carmen la scelta è caduta su un teatrante dassai più lunga militanza operistica come Denis Krief: propenso a scardinare la tradizione operandovi dallinterno, anziché eluderla in toto, ma anchegli fedele a unidea di teatro totale, dove regia, scene, costumi e luci si coagulano in una drammaturgia unitaria (pure quando quella del libretto fosse ondivaga o zigzagante) e indiscutibilmente “dautore”.
Regista interessato più ai rapporti tra i personaggi che ai personaggi stessi, Krief non prende posizione nelleterno dualismo della storia interpretativa di Carmen: parteggiare per lo spirito libero della protagonista, vedendo in Don José un maschilista complessato e omicida? O sposare la causa di questultimo, ragazzo di buona famiglia degradato da una donna senza scrupoli? Tutto viene filtrato da un occhio esterno che registra e non giudica: perfino il calore e la luce da cui lopera è permeata arrivano come riverberati, in un sentore di afa sonnolenta che intorpidisce, anziché acuire, la pulsione dei sensi. Lo stesso andirivieni iniziale non ha nulla di gioioso e piazzaiolo, assumendo piuttosto il sapore ritualistico-narcisistico (o voyeuristico, per chi rimane alla finestra) del passeggio fatto allo scopo di mettersi in vetrina; e pure Carmen – qui assai più sigaraia che gitana, e non solo a causa dei capelli platinati – dà lidea di cantare lhabanera per gli altri, tutti seduti ad ascoltarla come al varietà, anziché per se stessa.
Un momento dello spettacolo. Foto di Katarzyna Zalewska
La nitida asciuttezza della messinscena rappresenta un esplicito rifiuto delle Carmen veriste, ma non per questo Krief recupera loriginaria dimensione di opéra-comique: i dialoghi parlati sono anzi ridotti allosso, forse fin troppo. Cè però da parte del regista la capacità, elegante e sorniona, di valorizzare con leggerezza i momenti di humour sparsi qua e là da Bizet (il quintetto dei contrabbandieri assume, in coerenza con la musica, un vaporoso andamento operettistico); e pure qualche tocco sarcastico va a segno, come Micaela dipinta – più che come fidanzata – quale surrogato della mamma di Don José, con tanto di pullover fatto a mano e merendina corroborante al seguito. E in questo eros disinnescato ma restituito per schegge, dove lunico momento di elettricità carnale è il duetto dellultimo atto tra Escamillo e Carmen, il côté “sangue e arena” sopravvive come esercizio di stile: di nacchere, forse provocatoriamente, non cè neppure lombra (quando servirebbero la protagonista ricorre a dei bicchieri, o semplicemente alle mani), mentre i manifesti di vecchi film spagnoleschi e matadorici – la taverna di Lillas Pastia ne è tappezzata – contribuiscono a fare dello spettacolo una sorta di Carmen allo specchio.
Un momento dello spettacolo. Foto di Katarzyna Zalewska
La direzione del giovane polacco-libanese Bassem Akiki instaura una dialettica fertilmente ossimorica con questa regia razionale e stilizzata. Prevalgono i tempi incalzanti con qualche stacco addirittura frenetico, pur se alternati a improvvisi allargamenti (lintroduzione alla chanson bohèmienne è distillatissima), ma ciò non si traduce nella Carmen mordente e impetuosa di tradizione: la timbrica è tuttaltro che scintillante – anzi, prevalgono gli impasti lividi – e la speditezza, semmai, sottolinea quel rapido succedersi di tanti tableaux che, dati i numerosi colpi di forbice a quei momenti di raccordo che sono i dialoghi parlati, caratterizza limpaginazione di Krief. Lorchestra dellOpera di Poznan risponde con esattezza e pulizia, il coro del teatro sfoggia buona pronuncia e idiomaticità, quello dei bambini (che la regia ovviamente sottrae al cliché lezioso-monellesco) simpone per amalgama e intonazione.
I cantanti appartengono perlopiù alla compagnia stabile del teatro, e ciò garantisce unomogeneità dinsieme – magari senza punte di eccellenza – tanto più funzionale per uno spettacolo calibrato come questo. Mezzosoprano esperto ma ai primi approcci con leroina di Bizet, Helena Zubanovich ha già tutte le scaltrezze delle Carmen di lungo corso, forse fin troppo: certi birignao dantan appartengono a una tradizione che non ha nulla a che vedere con questo spettacolo. Non ne avrebbe bisogno, perché canta benissimo: la varietà dinamica è penetrante, il dosaggio dei fiati quasi impeccabile, il registro inferiore ha un colore morbido e scuro privilegiato dalla natura e corroborato dalla tecnica.
Compenetrata nel ruolo di “antagonista positiva”, e anche spiritosa nel plasmare una Micaela materna e morbidona, Roma Jakubowska-Handke è a sua volta un soprano raccomandabile che farebbe onore a qualsiasi teatro: il perfetto dominio dellaria del terzo atto – pagina che insiste insidiosamente sulla zona di passaggio – mostra unorganizzazione vocale saldissima. Più incerto il fronte maschile: Sang-Jun Lee è un Don José corretto, ma un po deficitario in termini di squillo (oltre che obbligato, nellalta tessitura del «dragon dAlcalà», a venire a patti con la scrittura vocale), e Mariusz Godlewski un Escamillo di grande autorevolezza scenica, ma opaca prestanza canora. Comprimari tutti molto a fuoco, vocalmente (Rafal Korpik, Zuniga sonoro e timbratissimo) o scenicamente (il duo Remendado e Dancairo trovano in Karol Bochański e Jaromir Trafankowski una coppia di sinistra buffoneria): e dunque, ancora una volta, buona musica, ma soprattutto ottimo teatro.
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