Ti ho sposato per allegria è la commedia ironica, divertente e sovversiva di Natalia Ginzburg che riapre la sempreverde riflessione degli scrittori sulla crisi della comunicazione, in particolare, di quella comunicazione intima che mette in gioco, oltre a convenzioni e interessi, anche gli affetti profondi. Scritto nel 1964, questo testo apre il filone di quel teatro della chiacchiera (nel senso di un teatro basato su uno stile quotidiano e leggero, che affronta apparentemente temi futili per toccare invece questioni profonde) che caratterizzerà la produzione dellautrice.
Sulla scena cinematografica di Paola Comencini, che cita – probabilmente, con quel grande finestrone sul fondale - il film omonimo di Luciano Salce del 1967, prevale appunto la chiacchiera. Alla luce che entra dallampia veduta su Roma, si anima il primo atto di uno spaccato di vita intima, ambientato in una camera multifunzionale, che suggerisce il moderno monolocale del boom economico, e del boom dellemancipazione a tutti i costi. Il regista Piero Maccarinelli decide di non incidere sul testo in senso “attualizzante”, velando lo spettacolo di un tocco un po vintage, estremamente pop, e curiosamente anacronistico. Assistiamo al risveglio di Giuliana (Chiara Francini) nella camera da letto del novello sposo Pietro (Emanuele Salce): i due iniziano a chiacchierare, poi con larrivo della domestica Vittoria (Giulia Weber) il ciarlare continua e il pubblico viene informato rispetto agli avvenimenti che hanno portato i due a un matrimonio fatto con furia. «Che furia cera?» continua a ripetere Giuliana.
Foto di Mario D'Angelo
Tutto ruota intorno ai monologhi, o finti dialoghi, della Francini, forse un po acerba, in un ruolo tanto complesso (Giuliana fugge di casa a 17 anni per poi condurre una vita fatta di espedienti e di momenti tragici, tra cui un aborto). La scelta registica sembra essere stata quella di virare al bambinesco la recitazione dellattrice (ricordiamo al contrario la carica erotica e malinconica di Monica Vitti nel film di Salce), fatta di movimenti veloci e allegri e continui saltelli che si legano ad un parlare rapido, dai toni acuti e leggermente toscaneggianti, dal vivo effetto intenzionalmente comico. Emanuele Salce pare allora automaticamente incarnare una figura quasi paterna; moderato e distinto, in perfetta opposizione rispetto alla moglie, non sembra mostrare grande carica sensuale o attrattiva nei confronti della giovane e bella Giuliana, facendo eccezione per il bacio finale sul quale si chiude il sipario.
A fare da contorno alla vita di coppia la cameriera Vittoria. La Weber dà al suo personaggio un profilo sfumato, sfuggente e misterioso, a metà tra una donna psicologicamente instabile, in uno stato perennemente estasiato, e una hippy sessantottina dalle improbabili amicizie. Operazione interessante se confrontata alla procace paesana di Maria Grazia Buccella del film già ricordato.
Ulteriore momento dedicato dalla Ginzburg alla futile conversazione è il pranzo di presentazione, sempre nella stessa camera che muta la sua funzione, di cui è indiscussa protagonista la madre di Pietro, la suocera, che entra in scena accompagnata dalla figlia Ginestra (Valentina Virando). Anita Bartolucci conquista la platea con un personaggio estremamente stereotipato, e forse per questo divertente, reso attraverso una recitazione brillante che gioca sui cliché aristocratico-borghesi e su una sfumata svagatezza. «Fortuna che tua madre è un po svaporata, se non fosse svaporata sarebbe insopportabile», dice la nuora.
Lo spettacolo si chiude al ritmo di una canzonetta pop, sulla ritrovata intimità della coppia che si tuffa nel letto, lasciando in dubbio gli spettatori rispetto allesito di questo stravagante, ma non troppo, allegro matrimonio.
Con lunghi applausi il pubblico del Teatro Verdi di Pisa ha dimostrato di aver gradito loperazione produttiva, tutta toscana, di ErreTiTeatro30 di Roberto Toni e della Fondazione Teatro della Pergola.
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