Opera che procede per ellissi, con vistosi black-out narrativi, Evgenij Onegin non a caso reca la dicitura di «scene liriche» anziché «dramma lirico»: Čajkovskij preferisce limitarsi a intonare una serie di “momenti della vita” dei personaggi – una quindicina danni dopo Puccini, nel portare in scena la storia di Manon Lescaut, seguirà la stessa strada – nella convinzione che il non detto sia estrapolabile dalla musica e le psicologie create da Puškin, comunque, restino fedeli alla musa dellimplicito più che dellesplicito. Per il regista è una sfida in più e Michal Znaniecki, a Napoli, supera brillantemente gli ostacoli di questa drammaturgia non debole ma fragile, grazie a una messinscena di estrema ricchezza poetica, umanità e semplicità: che sono poi i tre ingredienti con cui Čajkovskij stesso, in una lettera scritta al fratello mentre si accingeva a lavorare alla partitura, diceva di voler compensare le eventuali povertà dellazione.
Opera di paesaggi invernali e fievoli luci (siamo per lo più allalba o al tramonto), lOnegin suggerisce a Znaniecki un protagonista la cui parabola, puntellata da freddo e penombra, non sembra troppo lontana da quella di Turandot. La campagna russa non è certo la Pechino delle favole, al posto della “principessa di gelo” troviamo un ricco possidente un po dandy e un po realmente attanagliato dal tedium vitae: ma qui come là assistiamo a una rigidezza che si allenta, un marmo che si crepa, un ghiaccio che si squaglia. Puntando a un teatro al tempo stesso simbolico e materico, il regista polacco impagina uno spettacolo costruito su una dialettica di pieni e vuoti (la bella scenografia di Luigi Scoglio, inizialmente carica di elementi, si dirada quadro dopo quadro), grazie a una soluzione visiva “forte” e primordiale: la neve che si scioglie. Il ghiaccio che incapsula gli ambienti – le betulle diventano una sorta di stalattiti – e cristallizza i sentimenti inizia progressivamente a liquefarsi (pure il cristallo del lampadario è fatto di cubetti ghiacciati sgocciolanti), per approdare nel finale a un nudo palcoscenico dove lacqua ormai dilaga. Il gelo interiore di Onegin è stato sconfitto dalla forza dei sentimenti. Anche se ormai è troppo tardi.
Se la liquefazione – cuore visivo dello spettacolo – attiene allintimità di Onegin, il punto di vista narrativo è però, per Znaniecki, quello della protagonista femminile. Tutta la vicenda viene raccontata come un sogno, o più spesso un incubo, di Tatjana: non privo dimplicazioni psicanalitiche (la scena della lettera e lepilogo la vedono su un letto e su un divano, arnesi psicanalitici per eccellenza) e comunque allinsegna di una visionarietà onirica – le parole della lettera scorrono attraverso le betulle – e angosciata. UnAlice in un paese senza meraviglie, dove perfino il couplet di Monsieur Triquet non è lomaggio di un innocuo gagà, ma un inquietante tentativo di stupro; e, nel delineare i tormenti erotici della protagonista, la regia mostra nellultimo quadro una Tatjana non serenamente rassegnata a uno sposo tanto più anziano di lei, ma ancora con i sensi in fiamme per Onegin. Il che da un lato recupera, in pectore, loriginaria idea di Čajkovskij – poi lasciata cadere – di chiudere lopera con il soprano che cadeva tra le braccia del baritono, e dallaltro imprime a quellacqua dilagante una precisa sfumatura ginecologica.
Ben caratterizzato anche negli altri personaggi (la vecchia tata resta circoscritta nella dimensione bozzettistica, ma Larina diventa una matura madre-matriarca non priva di perduranti velleità muliebri), lo spettacolo è poi sapiente nellaggirare certi trabocchetti della partitura: come quelle pagine di danza che sembrerebbero meri squarci pittoreschi e, invece, sottintendono ogni volta una differente connotazione sociale; oppure quel quartetto iniziale che, di fatto, è un “doppio duetto”, e il regista risolve mettendo in primo piano le due donne mature, per fare invece di Tatjana e Olga una sorta di voci della natura disperse tra le betulle. Che una messinscena di tali qualità, coprodotta tra Cracovia e Poznan, venga conosciuta dal pubblico italiano va tutto a onore del San Carlo; anche se resta limpressione (e il rammarico) che uno spettacolo semplice-complesso come questo, tanto “pensato” quanto scorrevole, difficilmente oggi sarebbe potuto nascere in un nostro teatro.
Il coro e lorchestra napoletani sinseriscono nel contesto in modo assai professionale: luno simpone anche per duttilità scenica, laltra mostra – alle prese con la tavolozza cajkovskijana – unapprezzabile idiomaticità, grazie pure allottimo lavoro del concertatore. John Axelrod è narratore centellinato, ma pulsante: il respiro franto della partitura viene restituito grazie a un uso accorto dei tempi rubati, il fraseggio orchestrale appare cantabile senza nulla togliere a un certo spessore sinfonico di fondo. E se taluni stacchi sono indugianti, non viene mai meno un fondamentale dinamismo interno.
Pure il palcoscenico risponde bene. Igor Golovatenko e Dmitry Beloselskiy sono un baritono fin troppo squillante e un basso di limpidezza timbrica eccessiva in rapporto alla natura vocale di Onegin e Gremin: sebbene gioverà ricordare che in uno storico allestimento sancarliano di sessantanni fa (in italiano, comera duso) accanto alla Tatjana della Gencer figuravano un baritono di risonanze paratenorili come Gino Bechi e un basso soffice e chiaro come Italo Tajo. Ma se il baricentro canoro di Onegin insiste sulla regione medio-grave più di quanto sia congeniale a Golovatenko, e la senilità di Gremin suggerisce sonorità meno terse di quelle di Beloselskiy, sta di fatto che entrambi si raccomandano per sicurezza nel porgere ed espressività di accento. E altrettanto valido è Marius Brenciu, un tenore lirico “di linea” non ugualmente a fuoco in tutto larco della propria emissione (la voce a tratti non si espande appieno, né manca qualche scantonamento falsettante), ma musicale, signorile e sempre credibile nel dar vita alla malinconia nevrotica di Lenskij.
Carmela Remigio nei panni di Tatjana è una lieta sorpresa: un debutto preparato accuratamente, in estrema empatia con le indicazioni registiche. La voce appare un po asciugata (o forse è la pronuncia russa a sottrarle rotondità), lappeal scenico risulta notevole anche se meno fanciullesco di quanto il ruolo suggerirebbe e il risultato – intenso e autorevole – è una Tatjana più drammatica e meno lirica rispetto alla tradizione italiana di questo personaggio (Tebaldi, Carteri, Freni). Con la sua voce corposa di mezzosoprano scuro anche Giovanna Lanza – una Larina di spessore – tiene poi alta la bandiera di un Čajkovskij italiano, mentre Ketevan Kemoklidze sfoggia uno strumento più limpido e duttile, quale si conviene alladolescente Olga: restituendo con sensibilità insicurezze e frustrazioni di questo personaggio di solito circoscritto, banalizzandolo, allaspetto della ragazza viziata.
Un po meno a fuoco la balia di Elena Sommer, non privo dun retrogusto sinistro (così come lo vuole Znaniecki) il Triquet di Bruno Lazzaretti e con tutta lesperienza del veterano di lungo corso (ma con una robustezza vocale che i veterani di solito non hanno) lo Zareckij di Andrea Snarski: uno di quei comprimari extralusso di cui ormai si è perso lo stampo.
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