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Il grande disgelo

di Paolo Patrizi
  Evgenij Onegin
Data di pubblicazione su web 04/03/2014  

 

Opera che procede per ellissi, con vistosi black-out narrativi, Evgenij Onegin non a caso reca la dicitura di «scene liriche» anziché «dramma lirico»: Čajkovskij preferisce limitarsi a intonare una serie di “momenti della vita” dei personaggi – una quindicina d’anni dopo Puccini, nel portare in scena la storia di Manon Lescaut, seguirà la stessa strada – nella convinzione che il non detto sia estrapolabile dalla musica e le psicologie create da Puškin, comunque, restino fedeli alla musa dell’implicito più che dell’esplicito. Per il regista è una sfida in più e Michal Znaniecki, a Napoli, supera brillantemente gli ostacoli di questa drammaturgia non debole ma fragile, grazie a una messinscena di estrema ricchezza poetica, umanità e semplicità: che sono poi i tre ingredienti con cui Čajkovskij stesso, in una lettera scritta al fratello mentre si accingeva a lavorare alla partitura, diceva di voler compensare le eventuali povertà dell’azione.

 

Opera di paesaggi invernali e fievoli luci (siamo per lo più all’alba o al tramonto), l’Onegin suggerisce a Znaniecki un protagonista la cui parabola, puntellata da freddo e penombra, non sembra troppo lontana da quella di Turandot. La campagna russa non è certo la Pechino delle favole, al posto della “principessa di gelo” troviamo un ricco possidente un po’ dandy e un po’ realmente attanagliato dal tedium vitae: ma qui come là assistiamo a una rigidezza che si allenta, un marmo che si crepa, un ghiaccio che si squaglia. Puntando a un teatro al tempo stesso simbolico e materico, il regista polacco impagina uno spettacolo costruito su una dialettica di pieni e vuoti (la bella scenografia di Luigi Scoglio, inizialmente carica di elementi, si dirada quadro dopo quadro), grazie a una soluzione visiva “forte” e primordiale: la neve che si scioglie. Il ghiaccio che incapsula gli ambienti – le betulle diventano una sorta di stalattiti – e cristallizza i sentimenti inizia progressivamente a liquefarsi (pure il cristallo del lampadario è fatto di cubetti ghiacciati sgocciolanti), per approdare nel finale a un nudo palcoscenico dove l’acqua ormai dilaga. Il gelo interiore di Onegin è stato sconfitto dalla forza dei sentimenti. Anche se ormai è troppo tardi.

 

Se la liquefazione – cuore visivo dello spettacolo – attiene all’intimità di Onegin, il punto di vista narrativo è però, per Znaniecki, quello della protagonista femminile. Tutta la vicenda viene raccontata come un sogno, o più spesso un incubo, di Tatjana: non privo d’implicazioni psicanalitiche (la scena della lettera e l’epilogo la vedono su un letto e su un divano, arnesi psicanalitici per eccellenza) e comunque all’insegna di una visionarietà onirica – le parole della lettera scorrono attraverso le betulle – e angosciata. Un’Alice in un paese senza meraviglie, dove perfino il couplet di Monsieur Triquet non è l’omaggio di un innocuo gagà, ma un inquietante tentativo di stupro; e, nel delineare i tormenti erotici della protagonista, la regia mostra nell’ultimo quadro una Tatjana non serenamente rassegnata a uno sposo tanto più anziano di lei, ma ancora con i sensi in fiamme per Onegin. Il che da un lato recupera, in pectore, l’originaria idea di Čajkovskij – poi lasciata cadere – di chiudere l’opera con il soprano che cadeva tra le braccia del baritono, e dall’altro imprime a quell’acqua dilagante una precisa sfumatura ginecologica.


 Foto di Luciano Romano


 

Ben caratterizzato anche negli altri personaggi (la vecchia tata resta circoscritta nella dimensione bozzettistica, ma Larina diventa una matura madre-matriarca non priva di perduranti velleità muliebri), lo spettacolo è poi sapiente nell’aggirare certi trabocchetti della partitura: come quelle pagine di danza che sembrerebbero meri squarci pittoreschi e, invece, sottintendono ogni volta una differente connotazione sociale; oppure quel quartetto iniziale che, di fatto, è un “doppio duetto”, e il regista risolve mettendo in primo piano le due donne mature, per fare invece di Tatjana e Olga una sorta di voci della natura disperse tra le betulle. Che una messinscena di tali qualità, coprodotta tra Cracovia e Poznan, venga conosciuta dal pubblico italiano va tutto a onore del San Carlo; anche se resta l’impressione (e il rammarico) che uno spettacolo semplice-complesso come questo, tanto “pensato” quanto scorrevole, difficilmente oggi sarebbe potuto nascere in un nostro teatro.

 

Il coro e l’orchestra napoletani s’inseriscono nel contesto in modo assai professionale: l’uno s’impone anche per duttilità scenica, l’altra mostra – alle prese con la tavolozza cajkovskijana – un’apprezzabile idiomaticità, grazie pure all’ottimo lavoro del concertatore. John Axelrod è narratore centellinato, ma pulsante: il respiro franto della partitura viene restituito grazie a un uso accorto dei tempi rubati, il fraseggio orchestrale appare cantabile senza nulla togliere a un certo spessore sinfonico di fondo. E se taluni stacchi sono indugianti, non viene mai meno un fondamentale dinamismo interno.

 

Pure il palcoscenico risponde bene. Igor Golovatenko e Dmitry Beloselskiy sono un baritono fin troppo squillante e un basso di limpidezza timbrica eccessiva in rapporto alla natura vocale di Onegin e Gremin: sebbene gioverà ricordare che in uno storico allestimento sancarliano di sessant’anni fa (in italiano, com’era d’uso) accanto alla Tatjana della Gencer figuravano un baritono di risonanze paratenorili come Gino Bechi e un basso soffice e chiaro come Italo Tajo. Ma se il baricentro canoro di Onegin insiste sulla regione medio-grave più di quanto sia congeniale a Golovatenko, e la senilità di Gremin suggerisce sonorità meno terse di quelle di Beloselskiy, sta di fatto che entrambi si raccomandano per sicurezza nel porgere ed espressività di accento. E altrettanto valido è Marius Brenciu, un tenore lirico “di linea” non ugualmente a fuoco in tutto l’arco della propria emissione (la voce a tratti non si espande appieno, né manca qualche scantonamento falsettante), ma musicale, signorile e sempre credibile nel dar vita alla malinconia nevrotica di Lenskij.

 

Carmela Remigio nei panni di Tatjana è una lieta sorpresa: un debutto preparato accuratamente, in estrema empatia con le indicazioni registiche. La voce appare un po’ asciugata (o forse è la pronuncia russa a sottrarle rotondità), l’appeal scenico risulta notevole anche se meno fanciullesco di quanto il ruolo suggerirebbe e il risultato – intenso e autorevole – è una Tatjana più drammatica e meno lirica rispetto alla tradizione italiana di questo personaggio (Tebaldi, Carteri, Freni). Con la sua voce corposa di mezzosoprano scuro anche Giovanna Lanza – una Larina di spessore – tiene poi alta la bandiera di un Čajkovskij italiano, mentre Ketevan Kemoklidze sfoggia uno strumento più limpido e duttile, quale si conviene all’adolescente Olga: restituendo con sensibilità insicurezze e frustrazioni di questo personaggio di solito circoscritto, banalizzandolo, all’aspetto della ragazza viziata.

 

Un po’ meno a fuoco la balia di Elena Sommer, non privo d’un retrogusto sinistro (così come lo vuole Znaniecki) il Triquet di Bruno Lazzaretti e con tutta l’esperienza del veterano di lungo corso (ma con una robustezza vocale che i veterani di solito non hanno) lo Zareckij di Andrea Snarski: uno di quei comprimari extralusso di cui ormai si è perso lo stampo.

 

 

Evgenij Onegin



cast cast & credits


Carmela Remigio (Tat'jana) Foto di Luciano Romano




 
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