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Sposarsi per ridere e grufolare

Gianni Poli
  Il divorzio
Data di pubblicazione su web 28/02/2014  

Si ripropone con Il divorzio una novità del 2001, quando fu rappresentata ad Asti-Teatro con Ugo Gregoretti, regista e protagonista (parte di Agostino Cherdalosi). La commedia quasi dimenticata, ritrova oggi tutta la sua freschezza e l’acume critico puntato su un mondo vacuo, tronfio e cialtronesco, di cui vuole farsi specchio fedele e strumento di giudizio impietoso. Il furore satirico dell’opera postuma di Vittorio Alfieri non costituisce l’interesse primario di Beppe Navello e della sua giovane Compagnia, più attenti invece alla forte, immediata efficacia teatrale che dal testo deriva. Il regista, eludendo il moralismo d’un messaggio contro la decadenza dei costumi, apprezza l’ultima stagione del poeta tragico, passato al genere commedia: «È come se gli eroi delle sue tragedie, perfetti e smisurati nelle passioni e nei sentimenti, li sentisse definitivamente sconfitti; e ormai gli riuscisse soltanto a parlare di uomini, in particolare quelli del suo tempo e della sua patria, meschini e volgari, dai piedi fangosi».

I segni del Millesettecento rappresentato, in una società italiana bene individuata nei comportamenti tipici, consentono molte allusioni alla nostra attualità, con analogie che non impongono modelli, ma corrispondenze spesso precise e puntuali. È piuttosto l’autore, già coi nomi dei personaggi, ad esempio, a suggerire connotazioni caratteriali, dai Benintendi al dottor Becchini (medico), dal Cavalier Piantaguai a Don Tramezzino (prete). E un altro stimolo all’intelligenza, Navello lo coglie nel linguaggio: «Sentire lo sdegno sarcastico di Alfieri, riproporlo al pubblico con la forza di un lessico esemplare per sobrietà e ricchezza espressiva, libera lo spirito costretto nelle poche centinaia di espressioni alle quali è definitivamente condannata la lingua italiana contemporanea; e travestire i suoi personaggi con i caratteri eterni della mediocrità patria, con i ceffi imperituri dell’impudenza sociale, della politica gaglioffa, dell’ambiguità morale, ci fa capire che qualcosa di eterno e imperituro è all’origine della nostra secolare decadenza». Del resto, il critico Walter Binni aveva a suo tempo denunciato l’uso del linguaggio alfieriano, desunto dalle strutture goldoniane, come «troppo letterario e cinquecentesco-fiorentino». La stessa adozione di endecasillabi sciolti, per un effetto di aulicità, ai nostri giorni straniante, consente forse al regista d’avvalersi proprio di simile retorica per amplificarne gli effetti comici, negli scambi anche raffinati o violenti fra i personaggi, nelle contrapposizioni schematiche e nei maneggi per il matrimonio combinato. I cicisbei bersagliati dal commediografo, allora, sono appena elementi vistosi, nell’andazzo dell’epoca. Infatti, nella famiglia, agiata e molto sensibile alle conseguenze delle relazioni determinate dal censo, sta il vero centro d’interesse. Sua unità di misura, il denaro e le relative potenzialità e vantaggi. Così la famiglia Cherdalosi, in regime matriarcale dominante, aspira a maritare la figlia unica a un buon partito e i genitori accolgono contenti la proposta del rampollo Benintendi. Ma nella sua vanità e leggerezza, la ragazza dileggia il promesso, lo provoca, sfidandolo a lasciarla. E il giovane davvero l’abbandona, spalleggiato dal padre che lo porta via con sé in un lungo viaggio. Il panico dei Cherdalosi per le nozze programmate e subito sfumate è superato dalla cinica sagacia della madre: Lucrezina sposerà Fabrizio Stomaconi, un signore anziano e malato, ma ricchissimo. Il contratto ch’egli sottoscrive in dettagliati articoli garantisce tenore di vita elevato in beni e godimenti, sia alla sposina, sia alla madre e ai relativi parassiti. La festa che da lì s’abbozza, sguaiatamente libertina, assume toni grotteschi. I personaggi calzano infine mascheroni da maiale e si guardano ormai mostruosamente compiaciuti in uno specchio che appare a tutto sfondo. Su tali porcherie cala un sorriso acre, un monito severo, che il rito teatrale oggi fa meno greve, un po’ liberatorio persino.

L’azione si svolge per sequenze dal ritmo rapido, su una pedana rialzata rispetto al piano del palcoscenico, incorniciata da un arcoscenico titolato «Scena, le due case Cherdalosi e Benintendi, in Genova». Un dispositivo fisso così semplice consente il cambio delle scene e dei luoghi senza artifici tecnologici e una veloce praticabilità agli attori. La città portuale offre appena un pretesto per individuare le diverse vite esemplarmente corrive di una classe sociale al tempo diffusa. La recitazione è caricaturale, ma in un registro farsesco moderato, gradevole per impennate e scarti ironici. I protagonisti non svettano sui comprimari, in un concerto debitamente corale. I Cherdalosi schierano Stefano Moretti come padre e marito autoritario e succube. Marcella Favilla è madre-matrona vanitosa e prepotente e di cattivo gusto; Daria-Pascal Attolini impersona una Lucrezina capricciosetta e carina, libidinosa e duttile al compromesso. Settimio Benintendi è interpretato da Diego Casalis, sobrio e austero «alla genovese» e suo figlio Prosperino è un Camillo Rossi Barattini di ingenuo trasporto da innamorato, pronto a reagire al brutto scherzo dell’amata indegna. Nell’insieme, un gruppo di giovani attori col physique du rôle, mai naturalistici, agghindati con uno sfarzo leggero ed eccentrico. E vaporose trasparenze, per le donne, coronate dai cappelli in scherzoso equilibrio.


Il divorzio
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