Si ripropone con Il divorzio una novità del 2001, quando
fu rappresentata ad Asti-Teatro con Ugo
Gregoretti, regista e protagonista (parte di Agostino Cherdalosi). La commedia
quasi dimenticata, ritrova oggi tutta la sua freschezza e lacume critico puntato
su un mondo vacuo, tronfio e cialtronesco, di cui vuole farsi specchio fedele e
strumento di giudizio impietoso. Il furore satirico dellopera postuma di Vittorio Alfieri non costituisce linteresse
primario di Beppe Navello e della
sua giovane Compagnia, più attenti invece alla forte, immediata efficacia
teatrale che dal testo deriva. Il regista, eludendo il moralismo dun messaggio
contro la decadenza dei costumi, apprezza lultima stagione del poeta tragico, passato
al genere commedia: «È come se gli eroi delle sue tragedie, perfetti e
smisurati nelle passioni e nei sentimenti, li sentisse definitivamente
sconfitti; e ormai gli riuscisse soltanto a parlare di uomini, in particolare
quelli del suo tempo e della sua patria, meschini e volgari, dai piedi fangosi».
I segni del Millesettecento
rappresentato, in una società italiana bene individuata nei comportamenti
tipici, consentono molte allusioni alla nostra attualità, con analogie che non
impongono modelli, ma corrispondenze spesso precise e puntuali. È piuttosto
lautore, già coi nomi dei personaggi, ad esempio, a suggerire connotazioni caratteriali,
dai Benintendi al dottor Becchini (medico), dal Cavalier Piantaguai a Don
Tramezzino (prete). E un altro stimolo allintelligenza, Navello lo coglie nel
linguaggio: «Sentire lo sdegno sarcastico di Alfieri, riproporlo al pubblico
con la forza di un lessico esemplare per sobrietà e ricchezza espressiva,
libera lo spirito costretto nelle poche centinaia di espressioni alle quali è
definitivamente condannata la lingua italiana contemporanea; e travestire i
suoi personaggi con i caratteri eterni della mediocrità patria, con i ceffi
imperituri dellimpudenza sociale, della politica gaglioffa, dellambiguità
morale, ci fa capire che qualcosa di eterno e imperituro è allorigine della
nostra secolare decadenza». Del resto, il critico Walter Binni aveva a suo tempo denunciato luso del linguaggio
alfieriano, desunto dalle strutture goldoniane, come «troppo letterario e
cinquecentesco-fiorentino». La stessa adozione di endecasillabi sciolti, per un
effetto di aulicità, ai nostri giorni straniante, consente forse al regista davvalersi
proprio di simile retorica per amplificarne gli effetti comici, negli scambi
anche raffinati o violenti fra i personaggi, nelle contrapposizioni schematiche
e nei maneggi per il matrimonio combinato. I cicisbei bersagliati dal
commediografo, allora, sono appena elementi vistosi, nellandazzo dellepoca.
Infatti, nella famiglia, agiata e molto sensibile alle conseguenze delle
relazioni determinate dal censo, sta il vero centro dinteresse. Sua unità di
misura, il denaro e le relative potenzialità e vantaggi. Così la famiglia Cherdalosi,
in regime matriarcale dominante, aspira a maritare la figlia unica a un buon
partito e i genitori accolgono contenti la proposta del rampollo Benintendi. Ma
nella sua vanità e leggerezza, la ragazza dileggia il promesso, lo provoca, sfidandolo
a lasciarla. E il giovane davvero labbandona, spalleggiato dal padre che lo porta
via con sé in un lungo viaggio. Il panico dei Cherdalosi per le nozze
programmate e subito sfumate è superato dalla cinica sagacia della madre:
Lucrezina sposerà Fabrizio Stomaconi, un signore anziano e malato, ma
ricchissimo. Il contratto chegli sottoscrive in dettagliati articoli
garantisce tenore di vita elevato in beni e godimenti, sia alla sposina, sia alla
madre e ai relativi parassiti. La festa che da lì sabbozza, sguaiatamente libertina,
assume toni grotteschi. I personaggi calzano infine mascheroni da maiale e si
guardano ormai mostruosamente compiaciuti in uno specchio che appare a tutto
sfondo. Su tali porcherie cala un sorriso acre, un monito severo, che il rito
teatrale oggi fa meno greve, un po liberatorio persino.
Lazione si svolge per sequenze dal ritmo rapido, su una pedana rialzata
rispetto al piano del palcoscenico, incorniciata da un arcoscenico titolato «Scena,
le due case Cherdalosi e Benintendi, in Genova». Un dispositivo fisso così
semplice consente il cambio delle scene e dei luoghi senza artifici tecnologici
e una veloce praticabilità agli attori. La città portuale offre appena un pretesto
per individuare le diverse vite esemplarmente corrive di una classe sociale al
tempo diffusa. La recitazione è caricaturale, ma in un registro farsesco moderato,
gradevole per impennate e scarti ironici. I protagonisti non svettano sui
comprimari, in un concerto debitamente corale. I Cherdalosi schierano Stefano Moretti come padre e marito
autoritario e succube. Marcella Favilla
è madre-matrona vanitosa e prepotente e di cattivo gusto; Daria-Pascal Attolini impersona una Lucrezina capricciosetta e
carina, libidinosa e duttile al compromesso. Settimio Benintendi è interpretato da Diego Casalis, sobrio e austero «alla genovese» e suo figlio
Prosperino è un Camillo Rossi Barattini di
ingenuo trasporto da innamorato, pronto a reagire al brutto scherzo dellamata
indegna. Nellinsieme, un gruppo di giovani attori col physique du rôle, mai naturalistici, agghindati con uno sfarzo
leggero ed eccentrico. E vaporose trasparenze, per le donne, coronate dai cappelli
in scherzoso equilibrio.
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