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Finché non more il giorno

di Caterina Nencetti
  Oscura immensità
Data di pubblicazione su web 20/02/2014  

 

Oscura immensità. E alla mente, immediato, quasi per contrappasso, salta uno dei più celebri versi della letteratura italiana, «M’illumino d’immenso», l’unico della poesia Mattina di Giuseppe Ungaretti. Sappiamo, crediamo, forse persino ci auguriamo, che solitudine, dolore e morte siano umani e quindi universali. Diverse però, sono le reazioni a questi sentimenti, verrebbe da dire, “inammissibili”. Chi cerca un ricovero nella natura e nella luce dell’alba e chi sta, prigioniero inerme di quelle inospitali sere e notti, in cui da tempo è stato ricacciato.

 

Così Silvano Contin, a cui vengono uccisi, durante una rapina, la moglie e il figlio di otto anni. Il colpevole condannato all’ergastolo, Raffaello Beggiato, è in carcere da quindici anni e chiede la sospensione della pena per motivi di salute: ha un cancro e vuole raccoglierne “i frutti” da uomo libero. L’oscura immensità è, come da voce fuori campo, quella negli occhi della moglie di Contin, poco prima di morire. Il buio, quello reale, infinito, è il destino di chi resta, di entrambi.

 


Un momento dello spettacolo con Claudio Casadio sulla destra.
Foto di Gianmarco Chieregato.

 

Se è vero che l’abito non fa il monaco, è altrettanto evidente che Giulio Scarpati e Claudio Casadio rispondono a pieno alle richieste di un physique du rôle adatto all’interpretazione dei rispettivi personaggi. Volto angelico e silhouette indifesa per il primo; massiccio, terreno, aria da scugnizzo un po’ âgé, l’altro. Niente di male in questa scelta di corrispondenza, ma la sensazione è che mentre Scarpati vibra costantemente per quella rabbia sotterranea sempre in agguato (che difatti scoppierà con l’uccisione del complice di Beggiato e della di lui moglie), Casadio non sembra pienamente convinto di ciò che ci racconta. Il physique du rôle diventa cliché, la voglia di cronaca e di realismo si traducono in parolacce e stereotipo. In sua difesa però, è bene dire che l’utilizzo dei microfoni non rende merito in nessun modo al suo particolare timbro di voce che, seppur apprezzabile e apprezzato al cinema, non ci è dato sentire “al naturale” nemmeno nella sede a ciò deputata: il teatro.

 


Giulio Scarpati. Foto di Gianmarco Chieregato.

 

Le scene di Gianluca Amodio e gli effetti di Marco Schiavoni accompagnano le ultime regie di Alessandro Gassmann (come quella per il Riccardo III) e creano delle atmosfere suggestive, moderne.

 

Dai greci ad oggi, niente di nuovo sotto il sole, né tra le righe (di Massimo Carlotto) né sul palco. Piace avere la conferma, foss’anche per un’ora e mezza, che non si può fare di tutta un’erba un fascio e nemmeno dividere nettamente la scena, specialmente quella della vita, in due parti. Si è vittime e carnefici, tra sacro e blasfemo, morti mentre viviamo, innocenti finché non diventeremo colpevoli, mai più innocenti una volta accusati, impavidi e vigliacchi. Lo si ammette a volte. Si fa finta di niente per lo più. «Ma come cazzo ho fatto a sparare a un bambino di otto anni?». Lucidi, per qualche istante. Poi, necessariamente, oscuri.

 

 

Oscura immensità
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