Sembrerebbe un teatro remoto, eppure nemmeno un secolo ci separa dalla drammaturgia di Jean Cocteau, da quegli atti unici monologanti in cui sfociava il tormento di un poeta narciso e fantasioso, dun uomo esacerbato da delusione amorosa e abbandono. E che furono motivo dimpegno gratificante per le attrici che li portarono in scena. Non appare avventato riproporli oggi, collazionando i testi di La voce umana (1930) e del Bellindifferente (1940) per recitarli di seguito in un unico spettacolo (durata, settanta minuti).
Assume il merito dellimpresa larte di Adriana Asti, nel gusto sicuro per un milieu linguistico e culturale a lei connaturale. È guidata e stimolata dalla regia di Benoît Jacquot in un lavoro di analisi, ma soprattutto di coscienza e dominio dei mezzi espressivi. Se maccostavo prevenuto a quelle pièces, per linclinazione melodrammatica e psicologica connessa ai ricordi di precedenti interpretazioni, ora da codesta prova esco in parte riconciliato e sento attuale il dramma - concentrato in una lunga telefonata, spesso disturbata e interrotta - duna donna a confronto e in lotta con un amato che labbandona, perché riesce a trasmettere un sentimento perenne ed assoluto. Nellatto iniziale, in vestaglia bianca sopra una camicia da notte nera, scalza, la protagonista punta lo sguardo oltre lo spazio, a quella lontananza alla quale il filo del telefono la lega, distanza comunque invalicabile. La continuità fra le due situazioni drammatiche è data da una pausa in cui, spentasi leco della prima «voce umana», lattrice scende in platea e la scena viene cambiata a vista con lo spostamento dei mobili e la comparsa duna finestra aperta sullesterno. Quando torna in palcoscenico, incontra la presenza ostinatamente silenziosa di un compagno indifferente, che si difende dietro un giornale. Nel clima mutato, seguono momenti di un duello dove la maggior violenza appartiene a chi tace sfuggendo.
Adriana Asti e Mauro Conte
Foto di Fabian Cevallos
La teatralità dichiarata dallallestimento composito, giustifica e rende plausibile e apprezzabile una vicenda intima di rischiosa immedesimazione. Il palcoscenico resta visibile negli sfondi e negli accessori tecnici e larea di recitazione è determinata dagli attori, più che dagli arredi (letto, tavolino e abat-jour) o dalle quinte. Nel primo atto, la conversazione telefonica è spezzata, oltre che dallemozione e dal trauma, da una tecnica che ricalca, esasperandola, la precarietà delle comunicazioni dellepoca; esplora tutte le sfumature della confessione, della supplica e della disperazione. Labbandono e i suoi tristi effetti collaterali, fino al lutto, sono frutto duna convenzione che Cocteau allora e gli interpreti oggi dimostrano di sapere controllare. Sarebbe insopportabilmente naturalistico il racconto dellesperienza, se non si esprimesse in una recitazione «artificiale», dal sussurro al grido, dal singhiozzo alla scansione persino rassegnata, sicché la partecipazione emotiva è riflessa dal processo informativo evidenziato. Alla richiesta di Jacquot, di eliminare ogni simbolismo o suggestione veristica esteriore, che lattrice fa necessità propria; si unisce la misura dellironia, rinforzata in auto-ironia (nel secondo episodio), di fronte allostentato distacco del partner. Allora la «modernità» del sentimento femminile si afferma, in una donna che ribalta la soggezione (se non il masochismo complice) in dolorosa ricostruzione dun destino autonomo. Il patetico della situazione, alimentato dalla vistosa differenza detà dei protagonisti, si fa strumento per una prova dequilibrio e di dolente conquista di sé. Un modello daltri tempi, ma che suscita nostalgia, infonde il senso duna stupita beltà.
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