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Solitudine e abbandono al femminile

di Gianni Poli
  La voce umana Il bell'indifferente
Data di pubblicazione su web 03/02/2014  

Sembrerebbe un teatro remoto, eppure nemmeno un secolo ci separa dalla drammaturgia di Jean Cocteau, da quegli atti unici monologanti in cui sfociava il tormento di un poeta narciso e fantasioso, d’un uomo esacerbato da delusione amorosa e abbandono. E che furono motivo d’impegno gratificante per le attrici che li portarono in scena. Non appare avventato riproporli oggi, collazionando i testi di La voce umana (1930) e del Bell’indifferente (1940) per recitarli di seguito in un unico spettacolo (durata, settanta minuti). 

Assume il merito dell’impresa l’arte di Adriana Asti, nel gusto sicuro per un milieu linguistico e culturale a lei connaturale. È guidata e stimolata dalla regia di Benoît Jacquot in un lavoro di analisi, ma soprattutto di coscienza e dominio dei mezzi espressivi. Se m’accostavo prevenuto a quelle pièces, per l’inclinazione melodrammatica e psicologica connessa ai ricordi di precedenti interpretazioni, ora da codesta prova esco in parte riconciliato e sento attuale il dramma - concentrato in una lunga telefonata, spesso disturbata e interrotta - d’una donna a confronto e in lotta con un amato che l’abbandona, perché riesce a trasmettere un sentimento perenne ed assoluto. Nell’atto iniziale, in vestaglia bianca sopra una camicia da notte nera, scalza, la protagonista punta lo sguardo oltre lo spazio, a quella lontananza alla quale il filo del telefono la lega, distanza comunque invalicabile. La continuità fra le due situazioni drammatiche è data da una pausa in cui, spentasi l’eco della prima «voce umana», l’attrice scende in platea e la scena viene cambiata a vista con lo spostamento dei mobili e la comparsa d’una finestra aperta sull’esterno. Quando torna in palcoscenico, incontra la presenza ostinatamente silenziosa di un compagno indifferente, che si difende dietro un giornale. Nel clima mutato, seguono momenti di un duello dove la maggior violenza appartiene a chi tace sfuggendo. 


Adriana Asti e Mauro Conte. Foto di Fabian Cevallos
Adriana Asti e Mauro Conte
Foto di Fabian Cevallos

La teatralità dichiarata dall’allestimento composito, giustifica e rende plausibile e apprezzabile una vicenda intima di rischiosa immedesimazione. Il palcoscenico resta visibile negli sfondi e negli accessori tecnici e l’area di recitazione è determinata dagli attori, più che dagli arredi (letto, tavolino e abat-jour) o dalle quinte. Nel primo atto, la conversazione telefonica è  spezzata, oltre che dall’emozione e dal trauma, da una tecnica che ricalca, esasperandola, la precarietà delle comunicazioni dell’epoca; esplora tutte le sfumature della confessione, della supplica e della disperazione. L’abbandono e i suoi tristi effetti collaterali, fino al lutto, sono frutto d’una convenzione che Cocteau allora e gli interpreti oggi dimostrano di sapere controllare. Sarebbe insopportabilmente naturalistico il racconto dell’esperienza, se non si esprimesse in una recitazione «artificiale», dal sussurro al grido, dal singhiozzo alla scansione persino rassegnata, sicché la partecipazione emotiva è riflessa dal processo informativo evidenziato. Alla richiesta di Jacquot, di eliminare ogni simbolismo o suggestione veristica esteriore, che l’attrice fa necessità propria; si unisce la misura dell’ironia, rinforzata in auto-ironia (nel secondo episodio), di fronte all’ostentato distacco del partner. Allora la «modernità» del sentimento femminile si afferma, in una donna che ribalta la soggezione (se non il masochismo complice) in dolorosa ricostruzione d’un destino autonomo. Il patetico della situazione, alimentato dalla vistosa differenza d’età dei protagonisti, si fa strumento per una prova d’equilibrio e di dolente conquista di sé. Un modello d’altri tempi, ma che suscita nostalgia, infonde il senso d’una stupita beltà.


La voce umana Il bell'indifferente
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