Di fronte allopera coreografica di Alexei Ratmansky, ricca di
citazioni e spunti allusivi, viene spontaneo pensare allantica eppure moderna
prassi dellamellificatio (mellificazione).
Non unimitazione passiva e meccanica, ma unimitazione-emulazione che si
ispira al paziente e fruttuoso lavoro dellape che coglie il nettare di fiore
in fiore per produrre il miele. Allo stesso modo deve fare lartista nei
confronti dei suoi modelli per raggiungere poi unautonomia, in questo caso
coreografica, tale da consentirgli di essere interamente se stesso. Ebbene
Ratmansky dimostra di conoscere appieno il procedimento della mellificatioimitando e
assimilando i modelli, prendendo da ciascuno il meglio di quanto offre e
ricomponendo gli sparsi elementi in una cifra personale e originale. Cifra che
gli permette di raggiungere risultati a dir poco eccezionali nellottenimento
della purezza adamantina della danza accademica e nella conquista delleleganza
compositiva del genere balletto, entrambi allinsegna di una perfetta sintesi
di spirito russo e americano. Questo il senso di Serata
Ratmansky, il trittico
monografico dedicato al coreografo di San Pietroburgo, andato in scena al
Teatro alla Scala di Milano con i più che bravi ballerini scaligeri,
capitanati da un Roberto
Bolle in forma smagliante.
Uno spettacolo con i fiocchi accompagnato dallottima Orchestra scaligera,
diretta con piglio scuro da Mikhail
Tatarnikov, e salutato da meritati e calorosi applausi. La Serata, composta dal
debutto di Russian Seasons, dalla ripresa di Concerto
DSCH e dalla prima assoluta di Opera, è stata
loccasione per apprezzare lestro dellartista russo, “Benois de
la danse” nel 2005 e oggi considerato uno dei nomi più accreditati del
firmamento coreutico internazionale.
Ratmansky, dopo la preparazione rigorosamente accademica
avuta in patria, inizia la carriera di ballerino in blasonati organici come il
Bolšoj, il Balletto Reale Danese, il Royal Winnipeg Ballet, e approfondisce la
conoscenza del repertorio classico, neoclassico e moderno. Una preparazione
professionale che gli consente di fare il salto di qualità con la nomina a
direttore del Balletto del Bolšoj di Mosca dal 2004 al 2008. Quattro anni che
portano la celeberrima compagnia a rinascere riappropriandosi della propria
identità russo-sovietica e ad aprirsi al nuovo. Unimportante esperienza seguita
nel 2009 dal trasferimento a New York come 'artista in residenza' dellAmerican
Ballet Theatre, grazie al quale Alexei guarda al suo paese da una prospettiva
diversa per – come dice lui – “riflettere sui tempi sovietici” senza nostalgia
e nel contempo “entrare nella modernità”. Ovvero impossessarsi di quanto la
cultura e la arte occidentali hanno prodotto nei settanta anni del regime dei
Soviet. Una weltanshauung subito evidente in Russian
Seasons, “un moderno capolavoro neoclassico” su musica di Leond
Desyatanikov, creato per il New York City Ballet nel 2006 e ora messo in
scena per la prima volta dal Corpo di Ballo della Scala.
Russian Seasons
(Di Lanno, Massimi, Licitra e Fagetti)
© Brescia & Amisano
Nel balletto il folklore russo dei canti
popolari ispirati alle stagioni del calendario russo ortodosso e la tradizione
de Balletti Russi di Diaghilev, richiamata dalle
stravinskyane Les Noces di Bronislava Nijinska, si
sposano con il neoclassicismo di Balanchine e lastrattismo di Robbins.
La coralità del gruppo e al tempo stesso il protagonismo
dei solisti diventano per Ratmansky loccasione di ricordare i modelli ma al
tempo stesso farli suoi. Ecco allora strutturare la coreografia per sezioni
‘alla balanchine ma caratterizzarla in base ad una precisa idea di genere con
uomini e donne che hanno il loro spazio sia ballando insieme che
singolarmente. E gli stessi virtuosismi neoclassici non sono mai
ripetitivi e mostrano una dinamica contemporanea che imprime al movimento
un respiro tale da rifuggire ogni rigida ossatura accademica, dando la
sensazione che possa continuare allinfinito. ‘Alla Robbins è
poi la scelta di rappresentare le sei coppie con precisi colori, larancio, il
rosso, il verde, il blu, il viola e il bordeaux, che in modo astratto segnano
lo scorrere del tempo, il passare delle stagioni, il mutare dei sentimenti,
raffigurando una varia umanità con un tocco di pensosa ironia. Dettagli che
Ratmansky reinterpreta prediligendo la leggerezza e accentuando il lirismo dei
passaggi. Perfino la linea morbida dei costumi di taglio moderno si
amalgama con la tradizione russa dei copricapo femminili, mentre il matrimonio
contadino delle Noces si trasforma nellunione insoddisfatta
di un giovane donna con un uomo più grande di lei. Una mellificazione di
estrema raffinatezza rispecchiata nelleleganza dei costumi di Galina
Solovyeva, nelle luci carezzevoli di Mark Stanley, nella
potente voce del soprano Alisa Zinovjeva, nella melodia del violino
di Laura Marzadori, nella presenza delle sei coppie con in
testa Mick Zeni (Premio Danza&Danza 2013) e Marta
Romagna, seguiti dai sorprendenti Christian Fagetti, Marco
Messina, Stefania Ballone, Federico Fresi, Maurizio Licitra, Virna Toppi,
Valeria Valerio, Carlo Di Lanno, Nicoletta Manni, Denise Gazzo.
Concerto DSCH
(Nicoletta Manni e Carlo Di Lanno)
© Brescia & Amisano
E la mellificazione si ripresenta anche in Concerto
DSCH su musica di Dimitrij Šostakovič. Un omaggio di
Ratmansky al grande compositore visibile nello stesso titolo dove la
D di DSCH è liniziale del nome Dmitrij e SCH allude alle
prime lettere del cognome traslitterato in tedesco. Realizzato per il New York City Ballet nel 2008
sul Secondo Concerto per pianoforte e
orchestra e ripreso dal Corpo di Ballo della Scala dopo il debutto del 2012,
questo lavoro è di stampo ‘balanchiniano ma diventa ‘ratmanskynano nella
vivacità con cui il coreografo trasforma un serio balletto neoclassico in una
creazione atletica. Attraverso lifts, batteries, grandi e piccoli salti, grands jetés, aggraziati e giocosi epoulements, si dà vita ad una danza darte che si richiama allo stile sovietico ma
al tempo stesso è esaltata dai variopinti e leggeri costumi ‘american style di Holly Hynes e dalle cangianti luci di Mark Stanley. E leco dellastrattismo ‘robbinsiano si riempie di
sentimentale cameratismo spingendo gli stessi protagonisti ad essere veri
compagni di unavventura coreografica le cui tappe sono scandite dal piano di Davide Cabassi e dalla performance dei
convincenti Stefania Ballone, Federico Fresi, Marco Agostino, Nicoletta
Manni, Valerio Lunadei, e di tutto il corpo di ballo.
OPERA
(Roberto Bolle, Beatrice Carbone, Mick Zeni ed Emanuela Montanari) © Brescia & Amisano
Come ultimo pezzo della serata è stato presentato
latteso e riuscito Opera, un balletto creato ad hoc da
Ratmansky per lorganico milanese su musica di Leonid Desyatnikov e
proposto con successo en première nella consona cornice
del Teatro alla Scala. Opera –
spiega Desyatnikov nel programma di sala – “è una sorta di divertissement, un
catalogo di episodi non legati ad una trama” che, volendo riportare in vita
latmosfera dellopera barocca italiana, prende spunto dai recitativi e dalle
arie dei libretti di Metastasio e dal cap.28 delle Memoires di Carlo
Goldoni, in cui si danno precise indicazioni su come debba essere unopera
seria e quali siano le sue regole. Privo di supporto narrativo e animato da una danza
astratta, Opera è – come dice Ratmansky – una “stilizzazione
dellopera barocca” in quanto lartista non usa passi di danza specifici e
coglie il destro per riflettere sul ballet de cour e sul ballet
daction. Forme di intrattenimento che avevano ben chiaro come musica,
poesia e danza – per usare le parole di Monteverdi - dovessero
“incontrarsi in una imitattione unita”. Ratmansky costruisce la sua rivisitazione allinsegna di
un atteggiamento postmoderno che contamina generi e stili, assembla in modo
apparentemente indiscriminato materiali, cita da ambiti diversi, tende ad
azzerare la dimensione storica in nome di un eterno presente che non riconosce
il concetto di inizio e fine. Inquadrato in questa prospettica si comprende appieno il
significato di Opera, la sua apparente ridondanza e al tempo
stesso la sua linearità di fondo. “Una fantasia sul tema” che però rispetta
lusanza secentesca di coinvolgere per i ruoli maschili le cristalline voci
femminili del soprano Linda Jung e del mezzosoprano Natalia
Gavrilan, accanto a quella possente del tenore Jaeyoon Jung, e si sviluppa
in una serie di quadri scenografici ispirati alliconografia dellepoca. Guerrieri, amazzoni, battaglie, amori, lamenti, animano
una partitura coreografica neoclassicamente ‘mellificata che si avvale
delle immagini video di Wendall Harrington, degli splendidi
costumi depoca rivisitati dalla modernità di Colleen Atwood e dal gioco delle
luci chiaroscurali di Mark Stanley. Otto coppie accompagnano i quattro protagonisti, létoile Roberto
Bolle, perfettamente a suo agio nel mostrare la perfezione della sua danza
e del suo essere danzatore, i solisti Beatrice Carbone, Emanuela
Montanari e Mick Zeni, tecnicamente ineccepibili e dotati
di personalità convincente. Come convincente è il finale di Opera che,
raffigurando sullo sfondo limmagine di un teatro depoca stracolmo che osserva
lo spettacolo e quindi anche il pubblico vero assiso in sala, portato
specularmente a fare la stessa cosa, sottolinea la magica dimensione
dellaccadimento teatrale. Una dimensione dove labile e impercettibile è il
confine tra lartificiosità di ciò che si vede e la realtà di cui si fa parte.
Se Alexei si augurava che Opera “fosse
più europeo, più artistico” possiamo dire che è riuscito pienamente
nellintento e la mellificatio come ipotesi per interpretare
la poetica di Ratmansky è giustificata dalle sue stesse parole. “In
ogni artista cè come una sedimentazione di tutto quello che cè stato prima.
Nel mondo del balletto è una pratica corrente, si guarda a quello che è stato
fatto prima di te. Decidi di servirtene, ma spingendoti più in là, imprimendo
una spinta. Soprattutto nel balletto dove il corpo è memoria, scrittura
vivente”.
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