Opera-archetipo, Il pirata è rimasto vittima del proprio stesso mito: cristallizzato nel luogo comune del primo melodramma italiano davvero romantico e, in quanto tale (nonché complice lassenza di unautentica tradizione esecutiva), imbrigliato in una griglia che non rende giustizia al frastagliamento della sua drammaturgia e alla molteplicità delle sue soluzioni musicali. Al di là delle imprecisioni che ogni luogo comune comporta (se volessimo individuare una primogenitura questa spetterebbe al Pacini dellUltimo giorno di Pompei, che precede Il pirata di due anni), resta infatti la domanda di fondo: romanticismo, sì, ma quale?
Quello tra Bellini e Felice Romani fu un sodalizio basato sulla complementarietà delle caratteristiche, piuttosto che sullunità dintenti. Figlio dei nuovi tempi nella scelta dei soggetti, ma ancora classicista nellaristocratica limpidezza delle sue versificazioni, Romani offrì al compositore una levigata piattaforma letteraria in cui insufflare i palpiti romantici: una reductio ad unum tra la geometria degli affetti e il terremoto (maremoto, nel caso del Pirata) delle passioni che – a voler guardare dove il romanticismo era già nato davvero, cioè in Germania – rimanda più a certi raffinati equilibri di Spohr che alla schwarze Romantik istituzionalizzata da Weber. Con Bellini nasce la protagonista femminile concepita come vittima sacrificale, ma anche donna capace di molte pulsioni oscure; ad “angelizzarsi”, semmai, è il tenore, dirottato verso tessiture acutissime che ne fanno quasi un succedaneo ottocentesco dei castrati: e, in questa prospettiva, il pirata eponimo appare lontano dal mito romantico delleroe tenebroso e “maledetto”.
Un momento dello spettacolo. Foto di Peter Litvai
Da tale contrasto di sollecitazioni – dove il solo punto fermo è il compimento dellideale gluckiano di unaderenza musica-testo senza più spazio per ledonismo canoro – una regia consapevole troverebbe terreno fertile, ed è singolare che Bellini, in questi ultimi anni, sia rimasto ai margini degli interessi dei grandi registi dopera. Un sasso che muove lacqua dello stagno oggi arriva proprio dalla Germania, e da un teatro operosissimo ma non di prima grandezza: il Landestheater Niederbayern, circuito della Bassa Baviera che oltre a quello di Passau – dove lo spettacolo ha avuto battesimo – comprende anche i palcoscenici di Landshut e Straubing. Una volta tanto, però, è possibile sventolare un piccolo vessillo patriottico, perché a firmare la messinscena è un collettivo italiano: la compagnia Controluce Teatro dOmbre, per la regia di Alberto Jona.
Gruppo di nicchia, ma attivo su scala internazionale da una ventina danni nellambito del cosiddetto teatro di figura, nei suoi spettacoli Controluce ha sempre circumnavigato il triplice territorio della musica, dellastrattismo pittorico e della tecnica del teatro dombre orientale, ma questa è la prima messinscena operistica affrontata nella sua interezza. Lesordio è dei più felici: perfettamente coadiuvato dagli altri membri del team (il pittore Jenaro Meléndrez Chas, che collabora pure alla regia, e Cora de Maria, che realizza le silhouettes dello spettacolo), Jona si dimostra regista musicalissimo. Se le citazioni strehleriane (la tempesta realizzata con i lenzuoli) e wilsoniane (certe stilizzazioni delle posture) hanno il sapore di omaggi affettuosi – da un lato la grande tradizione italiana, dallaltro quellavanguardia che è ormai tradizione anchessa – a colpire è soprattutto il modo con cui limpaginazione visiva traduce la drammaturgia musicale: i tre protagonisti vengono duplicati da altrettante ombre, chiamate ad agire dietro un telo, che sviluppano i gesti appena accennati dai cantanti; ed è un modo tanto insolito quanto efficace di dar forma a quel periodare della melodia che non rinnega i numeri chiusi, ma li oltrepassa in una più ampia articolazione formale, che rappresenta lautentico traguardo espressivo del Pirata.
Questa materializzazione di un inconscio non ancora approdato alla psicanalisi, ma già devastato dalla cognizione del dolore, riguarda in primo luogo la protagonista: nello spettacolo il mondo delle ombre appartiene soprattutto a Imogene, avvolta da subito in un sordo vaneggiamento che non fa più sembrare così inaspettata la conclusiva scena di pazzia. Tra sensi di colpa e ambiguità represse, è il “racconto parallelo” sviluppato dalle sagome in controluce che consente ai personaggi di dire quanto il libretto tace, a cominciare dalla carnalità del rapporto (a parole puramente sublimato) tra Imogene e Gualtiero, e daltronde tutto lo spettacolo si basa sulla forza evocativa più che sulla narrazione: dal coro perennemente nascosto agli occhi del pubblico allAndante del baritono concepito come monologo interiore, anziché trionfalistico momento “pubblico” del personaggio; dal naufragio del protagonista – riassunto dalla sola vela della nave – al duello tra i due rivali, risolto in un unico, stilizzatissimo affondo di teatro-danza.
Un momento dello spettacolo. Foto di Peter Litvai
Basil Coleman e la Niederbayerische Philharmonie sono il direttore e lorchestra ideali per dialogare con una simile messinscena: sarà forse anche merito dellacustica perfetta del teatro di Passau, ma il nitore dei fiati nella sinfonia e la precisione dellinciso degli archi guizzante durante la tempesta rappresentano lideale pendant sonoro di questo spettacolo disadorno e lunare, oltre che unidiomaticissima traduzione fonica del “romanticismo classicista” messo in opera da Bellini e Romani. I tagli – pochi – sono più o meno quelli consueti, se di consuetudine si può parlare per unopera come Il pirata, anche se resta limpressione che, in questo caso, i colpi di forbice abbiano pure una ragione registica: se i “da capo” eliminati è scelta discutibile, ma spiegabile – almeno per una scrittura massacrante come quella del tenore – con lesigenza di non stancare i cantanti, qui resta limpressione che sarebbero stati dimpaccio pure visivamente (come gestire le ripetizioni quando le ombre, nella prima esposizione, sembrano aver già detto tutto?); e anche sopprimere il trionfalistico coro che precede lentrata del baritono pare in linea, innanzi tutto, con lidea del regista di fare di quellAndante un soliloquio, anziché una cavatina grintosa e dimostrativa.
Se questo Pirata difficilmente raggiungerà la strada dei palcoscenici italiani, sarà perché i nostri teatri non sembrano avere a cuore produzioni belliniane di grande spessore musicale e drammaturgico, preferendo semmai investire su qualche cantante di rango: e a Passau, obiettivamente, il plateau vocale non è stato allaltezza del resto dello spettacolo. Nonostante le contenute attrattive timbriche e un registro medio un po fievole per i desiderata del ruolo, non si può però negare a Hyun-Ju Park di aver ritratto con sensibilità e buon sostegno tecnico tutte le nubi (anzi, le ombre) che «aggravan la fronte» dImogene; così come vanno riconosciuti a Michael Mrosek una bella scioltezza nei (parchi) abbellimenti richiesti dalla scrittura di Ernesto, unita a un lirismo generoso e squillante che, tuttavia, denota una natura canora distante da quella tessitura bassobaritonale – non da baritono puro – che caratterizza il terzo lato del triangolo amoroso di questopera.
Difetta invece il protagonista: Eric Vivion-Grandi riesce a ghermire, con palpabile e legittima preoccupazione, le note sopracute del ruolo (Gualtiero si spinge fino al Re), ma non ha la corazza vocale necessaria per uscire indenne da un fraseggio che Bellini richiede costantemente al di sopra del passaggio. Restano una gradevole presenza scenica e molta buona volontà. Sonoro e ieratico, come si conviene al personaggio delleremita, il basso Young Kwon ed efficienti nei loro ruoli di alter ego dei due protagonisti (la damigella dImogene e il luogotenente di Gualtiero) il soprano Kathyrin Brown e il tenore Oscar Imhoff: che tra laltro, agendo qui il coro fuori scena, nellandamento narrativo assumono idealmente anche la funzione riservata alle masse corali.
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