Niente di peggio, per lo spettacolo di Pierfrancesco Favino e compagnia, di una recensione! Chi non è ancora stato a teatro, credetemi, può fermarsi qui. Meglio non leggere oltre, non sapere né pregustare. Uscire di casa col titolo, la trama e poco altro è sufficiente per avviarsi, senza paura, a teatro. Quindi, siamo daccordo. Legga solo chi ha visto.
Servo per due è ritraduzione e riadattamento. Nel 1745, Carlo Goldoni aveva scritto per lattore Antonio Sacco, in arte Truffaldino, Il Servitore di due padroni sotto forma di canovaccio, pubblicandone poi la versione interamente scritta. Da allora, una pioggia di riprese, allestimenti e riscritture, in Italia e allestero. Favino e gli altri (Paolo Sassanelli, Marit Nissen e Simonetta Solder) scelgono la recente One man two guvnors di Richard Bean (Londra, National Theatre, 2011) e decidono di riportare lambientazione in Italia: siamo a Rimini, negli anni 30.
La scelta di affrontare Goldoni a partire dallintermediario Bean sembra allungare la strada dellavvicinamento al testo, ma due sono, a mio avviso, le motivazioni di base. Grazie allesempio inglese, Favino ha in realtà preso la scorciatoia. È Pippo, non Arlecchino. Il suo protagonismo non è altrettanto forte come quello che poteva essere nella maschera originaria. Nessuna acrobazia. Pochi lazzi elaborati. Non invade la scena e, in bene e in male, cè spazio anche per gli altri, tutti, sembra giusto ricordarlo, stipendiati allo stesso modo. Degni di menzione sono i musicisti del gruppo Musica da Ripostiglio. I quattro artisti grossetani aprono la rappresentazione quando ancora alcuni nel pubblico, stretti in cappotti di naftalina, si spenzolano dalle poltroncine alla ricerca del posto. Lo spettacolo può dirsi già iniziato e comprende quegli stessi spettatori che chiedono permesso. O ancora, Ugo Dighero, il cascatore che interpreta il vecchio cameriere Alfredo e che durante il pranzo soffia la scena al servo per due in carica.
Pierfrancesco Favino (Pippo). Foto di Fabio Lovino
La commedia prende quindi la forma del varietà: o lo si accetta così o si troverà da ridire ad ogni battuta. La regia degli stessi Favino e Sassanelli, per certi versi distratta, si concentra sulla proposta di uno spettacolo comico. Il pubblico si diverte e applaude continuamente (tanto che dai palchi alcuni spettatori ci riferiscono di aver avuto difficoltà a comprendere diversi punti del dialogo). La tecnica vincente, sempre sulla scia del modello anglosassone della stand-up comedy, è il coinvolgimento dei “poveri” spettatori per i quali, nellintervallo, la maschera è costretta a ricercare la giacca abbandonata sulla poltroncina. Per questi momenti, davvero, si concentra e si spende il lavoro di Favino e degli altri. Per questi momenti, chapeau!
Nel secondo tempo, il meccanismo ripiega un po su se stesso. Si segue tutto, pazientemente, fino alla fine, ma con quel leggero fastidio che ti dà la consapevolezza che il meglio è passato. Hai tempo per pensare a Strehler o a Soleri, ma sarebbe ingiusto cercarli su quel palco. Pensi a Goldoni e ti sembra che si sarebbe potuto benissimo fare a meno di Bean. Una domanda sorge però spontanea e anche la sua risposta. Siamo proprio sicuri che quel canovaccio settecentesco avesse tanti altri e lodevoli obiettivi oltre quello di far ridere il pubblico?
Lo sapevo! Avete letto tutta la recensione. Eh ma io me laspettavo, ecco perché...
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