Antonio (Filippo Timi), umbro, e Jaber (Jaouher Brahim), tunisino, sono ciascuno a suo modo entrambi degli immigrati a Milano. Lospedale è la zona franca dove due culture così lontane hanno occasione di incontrarsi e scontrarsi. Il primo si trova lì per assistere il figlio Pietro, pochi mesi di vita e un cancro al cervello; il secondo per sostenere lamico Youssef (El Farouk Abd Alla), anchegli ricoverato nel reparto oncologico dello stesso ospedale. Antonio, “ruvido” e arrogante, fin dallinizio si mostra ostile nei confronti di Jaber, infastidito dai suoi timidi tentativi di fare amicizia. Sarà la sofferenza, democratica come la malattia, a trovare per loro un punto dincontro.
Proprio per infondere maggiore verità alla sua parte, Timi conserva qui il proprio dialetto umbro e dimostra evidente spontaneità in uninterpretazione magistrale, cui la regia ha intelligentemente concesso lo spazio per limprovvisazione. Non si è trattato, precisa lattore stesso, di “recitare”, ma - Stanislavskij docet - di “vivere” il personaggio attingendo alla propria “memoria emotiva”, al proprio vissuto. È questo il percorso che lo ha portato fino ad Antonio, nella gestione - reale - del bambino come nelle conversazioni al telefono, in cui la solitudine di Timi sul set (non cera nessuno, ovviamente, allaltro capo del telefono) è doppio speculare di quella di Antonio nel suo dolore.
Al fianco del protagonista, comprensibilmente più impacciato data la scarsa esperienza attorica, Brahim produce uninterpretazione comunque apprezzabile. Parallelamente al protagonista anche questi, che da quattordici anni vive in Italia con la famiglia, ha compiuto un lavoro di recupero della propria lingua dorigine, oltreché di “depurazione” dal marcato accento milanese. Un po troppi verbi allinfinito a tradurre il suo italiano da immigrato, ma questa è una pecca della sceneggiatura…
Lidea del film - spiega il regista Mirko Locatelli - nasce da unimmagine: un uomo con in braccio un bambino nel corridoio di un ospedale. Da questa micro-cellula narrativa Locatelli e la moglie Giuditta Tarantelli hanno tratto una storia che vuole essere innanzitutto un racconto sulla fragilità umana e non un film sul dolore, che finirebbe inevitabilmente per scivolare nel patetico. La malattia infatti - continua il regista - non è che un pretesto per raccontare la storia di un “guerriero” che di fronte alla malattia e - aggiungiamo noi - allo spettro della morte, si scopre vulnerabile e indifeso.
I corpi estranei non sono dunque tanto quelli dei malati costretti nelle corsie dospedale, quanto piuttosto quelli dei genitori - e più in generale di quei parenti e amici - che al loro fianco patiscono una sofferenza diversa, ma ugualmente profonda.
Regia e fotografia, la prima caratterizzata da un uso parco della macchina a mano e da piani ravvicinati, la seconda optando per colori lividi e sgranatura, proseguono nella stessa ricerca di “verità” della recitazione, con unattitudine documentaristica.
Molto azzeccata la soluzione narrativa con cui viene risolto il percorso di recupero post-operatorio di Pietro, suggerendo che limprovviso miglioramento sia diretta conseguenza dellunguento che gli ha somministrato Jaber. Questultimo infatti, in una sorta di rito esoterico, ne ha cosparso il corpo del bambino di nascosto dal padre. Sospeso tra cinismo e fascinazione, anche il pubblico finisce per (voler) credere a quella magia.
Nel finale, in linea con la sobrietà che caratterizza il film, in un gesto di ricomposizione, Antonio concede a Jaber di toccare la mano del figlio: è quello latto che spiega coi fatti quanto egli non riesce a esprimere a parole. «Bella sta camicia» è infatti quanto di meglio riesce a dire Antonio per consolare lamico dal suo dolore. A suggellare un film ben confezionato, le musiche dei Baustelle.
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