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Quando la prosa supera la poesia

di Elisa Uffreduzzi
  La vita di Adele
Data di pubblicazione su web 04/11/2013  

 

Tratto dal graphic novel di Julie Maroh Le bleu est une couleur chaude, La vita di Adele dopo il trionfo al Festival di Cannes 2013 (Palma d’oro nel maggio scorso), approda nelle sale italiane, dove, come c’era da aspettarsi, desta scandalo o viene osannato, dividendo pubblico e critica. Il film – il cui titolo originale è La vie d’Adèle - Chapitre 1 et 2 –, come s’intuisce, è la trasposizione cinematografica della sola prima parte del racconto a fumetti da cui è tratto. Narra le vicende di Adele (Adèle Exarchopoulos), per la quale, in quel difficile momento che è il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, a complicare le cose si aggiunge la scoperta della propria omosessualità e la passione per Emma (Léa Seydoux), una ragazza più grande di lei. Inizia così una lunga relazione lesbica, prima entusiasta, poi sempre più sola e delusa. Abdellatif Kechiche, reduce dall’altrettanto discusso Venere nera (2010), di nuovo scuote le coscienze del pubblico con la sua rigorosa ricerca di verità. La macchina da presa bracca letteralmente i personaggi insistendo ossessivamente sui particolari del volto e sui corpi, non solo nelle lunghe scene di sesso saffico, ma anche in quelle in cui la protagonista mangia maleducatamente, la bocca aperta, con una voracità impressionante, doppio semantico della carnalità. Un parallelo che di per sé sarebbe piuttosto banale e inflazionato (si pensi alla scena in cui Adèle assaggia le ostriche), ma per il quale è il volto infantile della protagonista a segnare uno slittamento di senso. I tratti puerili, l’espressione perennemente smarrita, la bocca sempre semi-aperta, uccidono ogni malizia e allora anche quel sesso apparentemente così “contro natura” appare naturale.

 


 

Il volto di Adèle Exarchopoulos è paradossale, laddove a un’immobilità facciale che a tratti lascia dubitare delle sue capacità professionali, fanno fronte le spiccate abilità espressive dello sguardo e l’agilità con cui la maschera facciale si contrae in improvvise smorfie di dolore. Uguale e contraria l’interpretazione di Léa Seydoux, qui nei panni di una virago dai capelli blu: espressiva in senso più convenzionale, si cala in un ruolo ai limiti dell’en travesti e perciò stesso ad alto rischio di sfociare in una risibile caricatura. Pericolo scampato: grazie alla fisionomia eterea dell’attrice e a una recitazione al riparo dagli eccessi istrionici. Il film di Kechiche ha delle macro-pecche che ne inficiano fortemente la riuscita: denso di cliché adolescenziali (le coinvolgenti lezioni di letteratura, la figura dell’adolescente introversa che divora libri, quelle ad essa contrapposte delle compagne di classe insensibili e pettegole) e preoccupato più della dimensione sessuale che di quella emotiva delle due eroine protagoniste, La vita di Adele trascura proprio quanto a quelle scene di sesso fornirebbe una giustificazione artistica, narrativa, morale. Quasi del tutto tralasciato, ad esempio, il rapporto di Adèle adolescente con i genitori e il modo in cui dopo un primo tentativo riuscirà a trovare la maniera di convivere con la menzogna, la vergogna e la frustrazione di nascondere loro le proprie inclinazioni sessuali.

 

Si sarebbe tentati di liquidare il film di Kechiche come un porno malriuscito, a questo punto penalizzato proprio dalle velleità artistiche che emergono in qua e in là, e a onor del vero c’è chi, all’uscita dalla sala, sdegnato e un tantino esagerato, lo afferma a gran voce. Eppure, al di là delle crepe, anche vistose, La vita di Adele è molto di più.

 


 

Quelle scene di sesso lesbo dalla lunghezza estenuante, che nulla lasciano all’immaginazione, rappresentano un’operazione di grande intelligenza: Kechiche obbliga lo spettatore medio-borghese eterosessuale – giunto in quella sala forse sull’onda della curiosità o tutt’al più per posa intellettualoide –  costretto al suo posto nell’oscurità, a guardare quelle lunghe ed esplicite scene di passione omosessuale. È un atto di violenza, psicologica e fisica allo stesso tempo, sullo spettatore. Sottoporlo a sollecitazioni emozionali che probabilmente rifiuta equivale a forzare il pubblico a fare i conti con quella dose di potenziale ambiguità che alberga in ogni individuo, costringendolo di conseguenza ad accettare anche l’omosessualità altrui. Qualcuno nega, sostenendo la segreta poesia di quelle immagini, ma non credo sia questa la prospettiva adeguata: non è un caso che dopo “X” minuti di quelle scene esplicite, il pubblico cominci a scomporsi: chi ride, chi parla, comunque cerca il modo di spezzare un imbarazzo che sembra non finire mai. Volutamente disturbing, per una giusta causa: questo credo sia il senso di un film che ha messo a dura prova le sue giovani interpreti prima ancora che il loro pubblico. Questo (anche) credo sia il senso del fare cinema oggi: quando il racconto e il modo si fanno vassalli di un’idea ed esprimono così pienezza di senso e della visione.



La vita di Adele
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