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Gitai e la lezione zavattiniana

di Elisa Uffreduzzi
  Ana Arabia
Data di pubblicazione su web 04/09/2013  

Ana Arabia (Io, l’araba) trae ispirazione dalla storia vera di una donna di Umm el Fahem, un villaggio nel Nord di Israele, ebrea nata ad Aushwitz che sposò un musulmano. Nel film di Amos Gitai, Yael (Yuval Scharf), una giovane giornalista a caccia di storie, visita una piccola comunità in cui ebrei e arabi convivono pacificamente, in un quartiere fatiscente tra Jaffa e Bat Yam, in Israele. Qui, tra le pareti scalcinate delle baracche, scopre un’umanità pacifica e generosa, rara quanto la vegetazione che cresce rigogliosa tra le macerie. Quest’ultima assurge dunque a simbolo della possibilità: quella di appianare i conflitti, di essere in disaccordo senza abbandonarsi a una spirale autodistruttiva di odio e violenza. Nelle intenzioni del regista il film è innanzitutto il modo di mantenere vivo il fuoco dell’utopia e insieme di trasmettere l’immagine di un Medio Oriente diverso da quello perennemente scosso dai conflitti, mostrato nei servizi giornalistici.

Ana Arabia - scopriamo dalle ultime parole del film - è il nome con cui si faceva chiamare la donna sulle cui tracce Yael è arrivata nella piccola comunità non lontano da Tel-Aviv. È lei paradossalmente la vera protagonista, grande assente del film.

La narrazione procede secondo un andamento bozzettistico, nonostante la continuità della ripresa: la macchina da presa segue Yael nelle sue peregrinazioni attraverso il quartiere, guidando così lo sguardo dello spettatore lungo il dedalo degli stretti passaggi tra una casa e l’altra. Qui la giornalista incontra vari personaggi, ciascuno con la sua storia, i suoi aneddoti da raccontare, la sua filosofia di vita. Nelle intenzioni del regista il lento peregrinare dell’obiettivo sulla scia di Yael è una metafora pacifista. La morale sottesa al racconto, o meglio ai racconti, è quella di unire etnie apparentemente incompatibili. Gitai affida il suo messaggio di conciliazione parallelamente alla forma  (il lungo piano sequenza in cui la mancanza di tagli è simbolo di unione) e al contenuto (le piccole storie che emergono dai racconti della comunità).

Non lontana dalla sua concezione cinematografica è quella della regista libanese Nadine Labaki, come emerge dal suo E ora dove andiamo? (2011): segnali importanti di un Medio Oriente in cerca di dialogo e di una convivenza pacifica, al di là dei violenti contrasti che riempiono i servizi dei telegiornali internazionali.

Il film procede con lentezza, ricco di silenzi pregni di significato, in cui risuona l’eco eloquente delle ultime parole pronunciate. Yael, spiega la stessa interprete, è la metafora dell’ascolto, conditio sine qua non di ogni dialogo. L’ottima attrice rivela le sue notevoli facoltà interpretative proprio nella capacità di ascoltare attivamente le parole che le vengono rivelate dagli altri personaggi. Una parte non facile, pur nel suo minimalismo, anzi proprio per questo.

Il dolly finale, che dalla figura di Yael muove lentamente verso il cielo terso attraversato da una rondine, si sofferma per un breve ma significativo momento sul paesaggio della città, contrapposto alla zona franca visitata dalla giovane giornalista, dove Yussuf (Yussuf Abu Warda) e gli altri abitanti le hanno regalato le proprie storie, affascinandola con la loro quotidianità. È un panorama che inconsapevolmente rievoca quello dell’incipit de La battaglia di Algeri (Leone d’oro a Venezia nel 1966). Una panoramica svelava dapprima la città europea, quindi la Casbah, denunciando fin dall’inizio la realtà di un contrasto insanabile. Un altro popolo, un altro conflitto, ma anche in quel caso c’era alla base del film un’idea di cinema essenziale, onesto.

La colonna sonora di Ana Arabia - composta da musiche dell’Azerbaijan e brani di Mahler - interviene con parsimonia nel film, caratterizzandone l’atmosfera senza essere invadente, coerentemente con la concezione filmica di Gitai, improntata alla semplicità, alla ricerca dell’essenza. Un ideale artistico reso esplicito anche da un eloquente monologo pronunciato nel corso del film: una sorta di elogio della vita semplice.

La sostanza umana che emerge dal film è di indubbio fascino e l’averlo girato in un unico piano sequenza costituisce una scelta che lo contraddistingue anche dal punto di vista  formale. Tuttavia Gitai con Ana Arabia realizza in fin dei conti un film neorealista, facendo proprio il dettato zavattiniano del pedinamento del personaggio. Una formula cui ricorre spesso il cinema mediorientale odierno, anche per mancanza di mezzi; si pensi ad esempio a buona parte della cinematografia di Abbas Kiarostami. L’operazione funziona, ma è auspicabile che la cinematografia mediorientale sappia andare oltre quell’idea di cinema, trovando una propria via alla fiction.


Ana Arabia
cast cast & credits
 

il regista Amos Gitai (Foto: Claudio Onorati / EFE)
il regista Amos Gitai (Foto: Claudio Onorati / EFE)




 
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