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Il Gran Teatro dei Cartelami
Scenografie tra mistero e meraviglia

Genova, Palazzo Ducale, Appartamento del Doge
11 maggio-25 agosto 2013

di Raffaele Niccoli Vallesi
  Il Gran Teatro dei Cartelami. Scenografie tra mistero e meraviglia
Data di pubblicazione su web 17/07/2013  
                                 

Un suggestivo manifesto che riproduce la sagoma di un flagellante composta da pezzi di legni sovrapposti disordinatamente, che ricorda i contorni ritagliati dell’artista Mario Ceroli, annuncia la mostra Il Gran Teatro dei Cartelami. Scenografie tra mistero e meraviglia (orari e informazioni www.palazzoducale.genova.it), un affascinante percorso nel campo poco conosciuto degli allestimenti effimeri religiosi di area mediterranea tra Seicento e Ottocento. La mostra segue di un anno la pubblicazione del volume Il Teatro dei Cartelami (edito da Sagep a cura di Franco Boggero e Alfonso Sista) e presenta al pubblico per la prima volta il lavoro di schedatura decennale da parte di storici dell’arte, etnoantropologi e restauratori italiani e francesi di un patrimonio artistico che, a questo punto, si configura come “sommerso piuttosto che disperso”.

 

Come evoca la parola, questi assemblaggi di figure bidimensionali da esporre nelle chiese durante la Settimana Santa erano eseguiti su materiali poveri ed estremamente deperibili: oltre ovviamente a carta e cartone, vi sono cartelami di latta, tela e legno, ma tutti sono accomunati dallo scopo di fungere da surrogato “popolare” delle più ricche decorazioni a fresco e arazzi che abbellivano permanentemente i luoghi sacri. Come tengono a precisare i curatori Franco Boggero e Alfonso Sista della Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Liguria, non si tratta però di strutture effimere, quanto di allestimenti ricorrenti poiché gli apparati, al termine delle festività, erano smontati e messi da parte per l’anno successivo, talvolta fatti a pezzi e letteralmente riciclati per rinforzare il verso di altre sagome oppure, in casi di apparati noleggiati, tornavano dal loro legittimo proprietario.
 


G. Grandi, U Sepolcru (1758), Corte, Musée de la Corse.

 

Pur nell’omogeneità tematica delle numerose opere esposte – si tratta perlopiù di apparati di figure raffiguranti Passioni di Cristo e più complessi Sepolcri architettonici per circa un centinaio di opere – la mostra presenta una varietà notevole di approcci al tema. Una fascia più rustica è ben esemplificata dalle bizzarre sagome settecentesche della Flagellazione di uno specialista del genere come Giambattista Trucco e da quelle, ancora anonime, di Cosio d’Arroscia (Imperia). Queste opere con la loro gamma espressiva limitata, ma vivace, stupiscono per via di certi curiosi aspetti come i manigoldi e i legionari barbareschi che ricordano i pirati che allora infestavano il Mediterraneo e sembrano rifarsi tanto a modelli tardogotici e sacre rappresentazioni medievali, quanto a teatrini di marionette, piuttosto che alle opere che a quel tempo produceva il Barocco genovese. Da ambiti più alti, ma forse meno divertenti, troviamo alcuni maestri come Giovanni Agostino Ratti e Paolo Gerolamo Brusco che si cimentano in opere più aggiornate che riflettono le novità di Andrea Pozzo, Gregorio De Ferrari e Domenico Parodi.

 

Tra le opere presenti in mostra, la tipologia più complessa, è quella del Sepolcro architettonico: un apparato scenografico che prende a prestito le sue forme dal teatro. In essi ritroviamo talvolta scene mobili, per variare ambientazioni e personaggi nell’avanzare della Settimana Santa, boccascena monumentale, quinte paesaggistiche, sipario e pure dei rozzi Sprecher, spesso sotto forma di corrucciati legionari moreschi. La complessità di queste composite macchine sceniche ha riguardato anche le scelte espositive, dato che si è deciso di rimontare numerosi apparati nelle sale talvolta problematiche di Palazzo Ducale. Tra queste opere si segnalano alcuni ragguardevoli prestiti di area mediterranea che testimoniano la notevole diffusione geografica dei cartelami tra Sette e Ottocento. Spiccano allora U Sepolcru di Corte in Corsica (dominio genovese fino al 1768), uno scrigno coloratissimo e vivace che imita una cappella affrescata con storie della Passione di Cristo, due Monuments du Jeudi Saint di area pirenaica e una sorta di tramezzo di tela dipinta in forma di boccascena teatrale di Oristano.

 

Tra gli antesignani più nobili del genere dei cartelami è poi idealmente in mostra la celebre Passione in blu del 1540 (visitabile al Museo Diocesano di Arte Sacra di Genova a prezzo ridotto, orari e informazioni www.museodiocesanogenova.it), composta da una serie di quattordici teli indaco con storie della Passione ispirate a Dürer, mentre fa parte dell’esposizione il quattrocentesco Crocifisso professionale di Castellaro, che atterrisce per l’espressività macabra degli schizzi di sangue che colano giù fino al teschio di Adamo.

 

La caratteristica comune dei manufatti esposti è la leggerezza. Questa è dovuta certo a esigenze di mobilità e trasformazione continua delle opere, ma a un livello più profondo, si può intendere tale aspetto nella relazione tra eterno ed effimero, degradazione materiale nella saldezza della fede. A ciò si aggiunge il volto “leggero”, talvolta giocoso e infantile, delle immagini. Di esse colpisce infatti la persistenza di elementi eterogenei e talvolta discordi, arcaismi e inverosimili montaggi iconografici. A tal proposito, la Deposizione di Porto Maurizio (Imperia) dei fratelli Carrega del 1780 unisce Daniele da Volterra con Rubens (le due Deposizioni, rispettivamente di Trinità dei  Monti e della Cattedrale di Anversa), recepiti entrambi, ovviamente, attraverso il mezzo incisorio. Ugualmente, un altro caso di anacronismo è il coevo Cristo Umiliato di Giuseppe Massa, conterraneo dei Carrega, che recupera addirittura la grafica düreriana per una certa ferocia espressiva (in particolare mi ha ricordato la Flagellazione della serie della Passione Incisa di due secoli e mezzo più antica), mentre per via di certe sbavature di colore e improvvise e stridenti accensioni tonali si ricollega alla pittura nordica che tanta importanza aveva rivestito per la cultura figurativa ligure dei secoli precedenti. Tali riferimenti stupiscono ed evidenziano la coesistenza di anacronismi piuttosto marcati, se si pensa che pure Gregorio dei Ferrari era di Porto Maurizio e la sua arte fatta di calligrafismi liberi e sinuosi è quanto di più lontano si possa immaginare dalle asprezze formali dei cartelami, che paiono spesso del tutto impermeabili alle correnti figurative tardo-barocche. Tali contrasti sono probabilmente dovuti alla presenza di modelli incisori nelle botteghe dei centri minori che riciclavano, consapevolmente o meno, modelli più antichi: non solo i già citati Dürer e Rubens, ma anche frontespizi librari per i Sepolcri istoriati e stampe popolari come le Figurine di Salvator Rosa per la natura episodica, vagamente sospesa ma esuberante, dei soldati atteggiati in varie pose.

 

Se la mostra poteva apparire certo non immediata, per via delle personalità artistiche sconosciute ai più, i curatori hanno scelto di restituire al visitatore il senso di meraviglia e spaesamento popolando l’esposizione di figure di carta spesse pochi centimetri e portali architettonici che schiudono dimensioni impossibili. Inoltre, nei casi di allestimenti incompleti, si è optato per una restituzione visiva delle opere, cercando di assemblare vari apparati riciclando letteralmente pezzi provenienti da set di cartelami diversi, in pieno accordo con lo spirito e con la storia delle opere esposte, che spesso riunivano senza difficoltà pezzi lontani tra loro anche diversi secoli. Si tratta di una scelta intelligente che permette al pubblico di cogliere a pieno la rozza monumentalità e l’efficace espressività di queste macchine effimere in modo evidentemente maggiore di quanto avrebbe fatto una mostra di “frammenti” di cartelami. In ogni caso la serietà scientifica non è stata certo sacrificata ma è stata affidata al completo catalogo (edito da Silvana Editoriale a cura di Franco Boggero, Alfonso Sista e Chiara Masi), fornito di regesto documentario e capitolo specifico sui restauri di questi complessi e stratificati manufatti. Assieme a un tentativo di restituzione visiva dei cartelami vi è poi, ad aiutare l’immersione del visitatore, un costante accompagnamento sonoro che evoca il baccano inscenato con corni di corteccia, bàttole e crepitacoli (presenti fisicamente in mostra) durante la Settimana Santa dalla Liturgia dell’Ufficio delle Tenebre.

 

Si tratta dunque di un patrimonio importante, recuperato grazie alla tenacia di storici dell’arte e restauratori intenti a inventariare opere dimenticate nei depositi da secoli e sino a ora rinnegate dagli studiosi. Così, per una volta, il detto italiano che vorrebbe che non ci sia nulla di più definitivo del provvisorio potrebbe essere visto in un’ottica un po’ meno sconfortante, visto che i cartelami si sono salvati a dispetto di altre forme artistiche meno deperibili proprio in virtù della loro natura temporanea, rimovibile, ma non effimera. Se dunque l’aspetto più caratteristico della mostra è la natura ciclica dell’apparato effimero mediterraneo, ben esemplificata dal manifesto dell’esposizione, dalle sedimentazioni lignee, dai grovigli di travi che sostengono l’immagine – in sé stessa forse proprio il volto meno interessante dell’esposizione – un’eccezione a tale dimensione di temporalità ricorrente e riuso di immagini è evidenziata dall’opera senz’altro più incredibile: il Sepolcro Istoriato di Giuseppe Musso di Laigueglia (Savona). Si tratta di una struttura architettonica monumentale composta da venticinque teleri, su più registri e alta quasi quindici metri, dove tra le ipertrofiche statue di Profeti e un timpano neoclassico sormontato dalle Virtù Teologali si apre uno squarcio di paesaggio visionario, con rocce frastagliate e smaltate, alberi arricciati e dai riflessi metallici che sembrano una declinazione provinciale, ma non meno libera, di certa pittura ottocentesca allucinata di artisti come Johann Füssli o William Blake. Con quest’opera esagerata, inutilmente sproporzionata rispetto al piccolo centro costiero di Laigueglia e frutto della mente eccentrica, ma tutto sommato coerente di un benefattore locale, si chiude idealmente il cerchio di un’arte popolare che ha fiorito almeno fino al secolo scorso nutrendosi di suggestioni e licenze inaudite in centri artistici maggiori. Un’arte popolare che finalmente può godere di una mostra che ne evidenzia il contenuto più autentico e innovativo, nella quale, talvolta, i chiodi, le borchie delle braccia snodabili e le giunture delle travi sconnesse ci dicono molto più delle immagini in sé e ci mostrano gli aspetti di cultura materiale e antropologia che spesso nei casi di esposizioni temporanee vengono sacrificati all’altare del nome altisonante, dell’artista di grido. Così mi auguro che questa difficile, ma riuscita, mostra possa portare a una più ampia rivalutazione dei cartelami, anche in vista della futura ricollocazione di molti di questi apparati nei loro, spesso remoti, luoghi di origine.
 


G. Musso, Paesaggio esotico (quinte destra e sinistra del Sepolcro Istoriato, 1837 ca.), Laigueglia, Chiesa di San Matteo. 
 

In alto G. Grandi, U Sepolcru (1758), Corte, Musée de la Corse (particolare).

In home page G.B. Trucco, Manigoldo (1700 ca.), Vendone, Chiesa di Nostra Signora della Neve.




La locandina della mostra.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Fratelli Carrega, Deposizione (1780 ca.), Porto Maurizio, Oratorio di San Pietro al Parasio.
 
 
 

G. Massa, Cristo umiliato (1710 ca.), Coldirodi, Chiesa di San Sebastiano.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

G. Musso, Sepolcro Istoriato (1837 ca.), Laigueglia, Chiesa di San Matteo.


 

 
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