Hanno tutti il loro scheletro nellarmadio, i personaggi del Rienzi: i nobili come i popolani, i malvagi conclamati come i “buoni” (o, almeno, gli eroici), che comunque – a cominciare dal protagonista – presentano più di unambiguità. Non si salva neppure quellanima pia di Irene, castissima innamorata di Adriano Colonna, ma, si direbbe, invaghita soprattutto del proprio fratello: con un rapporto che – quando la fortuna di Rienzi tramonta – ricalca labnegazione filiale di Antigone per Edipo, o di Cordelia per Lear, ma forse sottintende un incesto platonico. Anche se per rendere carnale lamore tra fratelli Wagner dovrà aspettare La valchiria.
A una drammaturgia come quella del Rienzi, tanto pletorica negli orpelli (cori encomiastici, marce, danze) quanto sfuggente nei rapporti tra i protagonisti, gioverebbe insomma una messinscena formalistica in superficie e sfumatissima in profondità. Hugo de Ana, in questo nuovo allestimento dellOpera di Roma – onorare il bicentenario di Wagner con la sua Grosse tragische Oper dambiente romano è stata unottima idea, per il teatro capitolino – si conferma però più scenografo geniale che regista illuminante: illustra il versante pompier con indubbio talento visivo (la colonna traiana e la porta del Pantheon vengono restituite con una sapienza figurativa visionaria e niente affatto calligrafica), ma riconduce Rienzi alla banale dimensione del dittatore assetato di potere, piuttosto che dellutopista.
Un momento dell'opera. Credits: Lellie Masotti
È una semplificazione che implica il consueto corredo di diacronismi narrativi – si trascolora, senza soluzione di continuità, dal quattordicesimo secolo previsto dal libretto al pieno Novecento – e non risparmia al protagonista pose mussoliniane con le mani sui fianchi (siamo pur sempre a Roma…), né ai suoi uomini elmetti da esercito del Terzo Reich (sul Rienzi pesa la sinistra affermazione di Hitler in Mein Kampf: «Da lì è cominciato tutto»). Lesito è fumoso: per lintrinseca povertà intellettuale di una simile traslazione e perché de Ana, volendo sottolineare il delirio di onnipotenza dell«ultimo dei tribuni», costringe il tenore Andreas Schager – già vocalmente non adamantino del suo – ad esaltate risatacce che intorbidano la linea di canto e frammentano il fraseggio. Ma anche altre trovate, dalla sinfonia “visualizzata” allinnesto di varie proiezioni a memento degli orrori della guerra, contribuiscono ad appesantire e banalizzare al contempo; semmai resta defilata quella che, in filigrana, è la vera vis polemica dellopera: la repulsione di Wagner, e dei tedeschi in genere, per latavica propensione romana e italica – questa sì davvero metastorica – al voltafaccia politico, alle coalizioni improvvisate e alla faida tra alleati.
Se il regista semplifica, il direttore non è da meno. Stefan Soltesz opera vari tagli (tra cui le danze in toto), ma lo sfrondamento non perviene a una vera focalizzazione drammaturgica, capace di eliminare molto esaltando però ciò che resta: si direbbero colpi di forbice concepiti per non stancare il pubblico, più che per restituire in modo vivido una partitura fascinosa ma sovrabbondante. Per il resto Soltesz ha ottenuto dallorchestra esiti dindubbia precisione (non una sbavatura negli ottoni, che il Rienzi impegna oltremisura), a prezzo però duna tensione drammatica solo intermittente. Meno millimetrico forse lappiombo del coro, ma la prova di quello di voci bianche – davvero eccellente – provvede a pareggiare il conto.
Manuela Uhl (Irene) e Angela Denoke (Adriano) Credits: Lellie Masotti
Schager è un Heldentenor nella media di oggi, dunque impari ai desiderata wagneriani. Ha comunque volume e timbro sufficienti – è già qualcosa – per proiettare in modo non deficitario tutte le note del ruolo, anche se poi quelle stesse note sono raggiunte a prezzo dun certo sbandamento di emissione; e arriva alla fine della recita con una sufficiente riserva di ossigeno per onorare, in sottofinale, lappuntamento con la preghiera: meno intensa e sfumata di quanto si dovrebbe, ma affrontata con sensibilità e concentrazione. Le posture mussoliniane e i deliri criptohitleriani non gli giovano, laddove Angela Denoke è invece credibile soprattutto scenicamente: per la bellezza androgina, confacente al personaggio en travesti di Adriano Colonna, e un magnetismo sensuale vagamente torbido ma, a suo modo, filologico, se si pensa che il ruolo fu pensato da Wagner per leroticissima e morbosa Wilhelmine Schröder-Devrient. Pure sul fronte canoro la Denoke sa farsi valere, sebbene dispiaccia che unartista del suo spessore sia assurta nei cieli dello star-system quando la stagione vocale migliore era ormai alle spalle: la scrittura anfibia del ruolo – a metà strada tra soprano e mezzosoprano – le giova finché il canto si attesta sul registro medio, ma più in alto il suono si fa teso; mentre la prima parte della sua grande aria, dove Wagner ricorre a uno stile italiano e una fluidità parabelcantistica, la vede un po sulla difensiva in termini di fiati.
Andreas Schager (Rienzi). Credits: Lellie Masotti
Estranea invece, per sua fortuna o sfortuna, allo star-system, Manuela Uhl (di casa nei maggiori teatri tedeschi, poco nota altrove) è la migliore del terzetto: unIrene più donna che madonna, fragile ma tuttaltro che debole, lirica – per psicologia canora – e tuttavia capace di galleggiare sullorchestra wagneriana con lo spessore dun soprano drammatico. I comprimari, anche per via dei tagli, emergono poco. Ma se nessuno spicca sugli altri in termini positivi è difficile non registrare, in negativo, i suoni sordi e ingolati con cui Roman Astakhov pennella lanima nera e la natura torva del capofamiglia Stefano Colonna.
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