Proponiamo, messe a confronto, due diverse letture critiche del primo film di Alessandro Gassman nel ruolo di regista oltre che attore. Spicca in entrambe l'inevitabile confronto con l'esperienza teatrale di Gassman: nel primo caso è evidenziato il problema dello scarto tra quest'ultima e la settima arte, i cui mezzi mettono l'attore sotto una lente d'ingrandimento. Nella seconda recensione, invece, il parallelo tra teatro e cinema serve a riconoscere l'impegno dell'attore su un "carattere" nel percorso che va da Riccardo III a Roman. Di seguito il primo contributo a firma di Elisa Uffreduzzi.
Un problema di distanza Razzabastarda segna lesordio alla regia cinematografica di Alessandro
Gassman, già apprezzato regista teatrale. Inserito nella sezione
“Prospettive Italia” del Festival Internazionale del Film di Roma 2012, il film
è ladattamento per il grande schermo della pièce teatrale Cuba
and his Teddy Bear di Reinaldo Povod (1986), già portata a teatro dallo
stesso Gassman con il titolo Roman e il suo Cucciolo, spettacolo
con il quale ha vinto il premio UBU 2010. È la storia
di Roman (Alessandro Gassman), immigrato rumeno arrivato in Italia trentanni
fa. Mezzo zingaro, devoto alla madonna nera, spacciatore di cocaina e meccanico
per copertura, sogna per il figlio Nicu (Giovanni Anzaldo) una vita
migliore, onesta, lontana dai fantasmi della droga. Lo manda da un avvocato (Michele
Placido), sperando così di poterlo avviare a unonesta professione, ma
tutte le sue speranze finiscono per annegare nelleroina. Sembra
destino che le opere italiane presentate alla settima
edizione del Festival debbano mettere fotografia e
soluzioni registiche brillanti e di buon impatto visivo al servizio di film che
si accartocciano su se stessi: si era detto per E la chiamano estate ed
il discorso torna tristemente ad essere vero per Razzabastarda. La
fotografia è in bianco e nero per buona parte del film, interrotta solo da un
paio di sequenze oniriche a colori sui toni del rosso. Primissimi piani e
dettagli, una macchina a mano a volte anche eccessivamente instabile (dove la
mobilità è cioè enfatizzata), inquadrature fisse dello stesso scorcio urbano
che scorrono in rapida successione mostrando così lo spostamento dellombra di
un edificio sullaltro… tecnicamente Razzabastarda avrebbe le
carte per essere un buon film, neanche banale. Ma perché non chiamare un attore
rumeno a interpretare il personaggio di un rumeno? Ne va della
credibilità dellintera loperazione: ciò che poteva funzionare nel contesto
teatrale, non regge al confronto ravvicinato con la macchina da presa. Compromettono
ulteriormente la situazione il ricorrere nella sceneggiatura di improbabili
sgrammaticature da simil-immigrato per la parte di Roman/Gassman; Giovanni
Anzaldo altrettanto fuori posto nei panni dellitalo-rumeno e infine “Talebano”,
che nella recitazione composta di Sergio Meogrossi ha troppo
del filosofo e troppo poco del tossico. Riuscito, invece,
il connubio tra personaggio e interpretazione di Geco, nelle cui vesti Manrico
Gammarota ci strappa qualche sorriso. Strano ma vero, dal cinema muto
a oggi, passa il tempo, ma per chi viene dal teatro il problema rimane sempre
lo stesso: riconoscere che la distanza della macchina da presa è un test
impietoso e per superarlo, bisogna saper fare delle rinunce. In questo caso
quella ad essere il protagonista e rimanere ancorato al contesto italo-romano. La proiezione del film di Gassman è stata seguita al Festival
da Ciro, il cortometraggio di Sergio Panariello che
racconta un episodio di vita dellomonimo protagonista. La sceneggiatura, nata
da unidea di Davide Zazzaro e Gaetano Di Vaio è
il frutto di un lavoro di gruppo, quello dei ragazzi del laboratorio di
scrittura creativa diretto dalla sceneggiatrice Anna Coluccino con
la collaborazione di Guido Lombardi e dello stesso
Gaetano Di Vaio. Iniziato nel 2009-2010 al Centro Territoriale Mammut di
Scampia, il progetto è approdato alla stesura finale della storia di Ciro, un
ragazzo di quattordici anni: la dura vita a Scampia, la scoperta dei veri
valori della vita (lamore, lamicizia) e dei falsi miti della malavita,
attraverso un percorso di rapida e drammatica crescita, fino al duplice finale,
prima onirico, poi no, prima autoconclusivo, poi aperto. Un saggio breve ma
grazioso. di Elisa Uffreduzzi
Segue quindi il parere della nostra collaboratrice esterna, Ilaria Pellanda. Razzabastarda: il debutto di Alessandro Gassmann dietro la macchina da presa
Un debutto promettente quello di Alessandro Gassmann nella settima arte, consacrato dalladattamento cinematografico della sua bella messinscena di Roman e il suo cucciolo (Premio Ubu 2010 come Spettacolo dellanno), tratta a sua volta dal dramma di Reinaldo Povod Cuba and His Teddy Bear (1986).
Razzabastarda è un film cupo, girato in un disperato e molto contrastato bianco e nero (che riporta alla mente le atmosfere dellOdio di Mathieu Kassovitz), che racconta la complessità di un rapporto padre-figlio destinato a rimanere drammaticamente irrisolto. Ambientata nella periferia di Roma, la pellicola narra la storia di un immigrato romeno – incarnato dallo stesso Gassmann – semianalfabeta e nevrotico che, pur lavorando come gommista, sbarca il lunario grazie allo spaccio di droga e ad altri loschi affari e cerca di garantire così al figlio Nicu (un intenso Giovanni Anzaldo, Premio Ubu 2010 come Nuovo attore under trenta) un futuro migliore, «pulito», una vita diversa dalla sua. La macchina da presa indugia su volti sconvolti, segnati dalla violenza e dal desiderio di emanciparsi da unesistenza degradata e degradante. Nelle frasi concitate che escono dalla bocca di Roman, nelle sue urla rabbiose e nella profonda tristezza dei suoi occhi (così diversi da quelli annebbiati e rassegnati dellamico cocainomane Geco, interpretato anche in pellicola da un bravissimo Manrico Gammarota) risiede tutta la tragica impotenza e la tenerezza di un padre-pusher che si danna nel tentativo di assicurare a quel suo figlio tanto amato un avvenire migliore. Ma Nicu, intriso comè della malata realtà di Roman, non riuscirà a dirigere i propri passi lontano dalle orme del genitore, irretito anche dallamico “Talebano” (Sergio Meogrossi) col quale, allinsaputa del padre, chatta in rete e si fa coinvolgere in traffici illegali.
A teatro la regia di Gassmann era quasi claustrofobica, chiusa in ununica stanza posta su due livelli (sul piccolo soppalco, la cameretta di Cucciolo), un ambiente fatiscente che solo a tratti veniva “sfondato” da immagini proiettate su uno schermo impalpabile; e al cinema – nonostante i protagonisti aumentino di numero e si muovano fra le baracche (quasi dei non-luoghi), tra i locali della città, nei luna park, sulle terrazze di alti edifici, nei parcheggi, ecc. – non muta per chi è in sala la sensazione di trovarsi immersi in una storia senza via di scampo, costretta in una direzione che, per Roman e compagni, per “quelli come loro”, sembra lunica possibile.
Roman è senzaltro un delinquente, eppure, man mano che la pellicola si srotola, ci troviamo a tifare per lui, a sperare che i suoi affari, quei suoi spacci anche forieri di morte (è sua la droga che ha ucciso la figlia della donna interpretata da Nadia Rinaldi in un cameo molto sentito) vadano a buon fine.
A chi a teatro ha visto il Riccardo Terzo allestito e interpretato dallo stesso Gassmann, potrà forse venire in mente la simpatia nutrita, nonostante lincommensurabile efferatezza del personaggio, per il terribile re shakespeariano, quasi un fumetto immerso in un allestimento alla Tim Burton. E se al cinema, pur celato dietro la scorza dura del suo carattere, la sua rabbia e la sua furia, riusciamo più facilmente a intravedere il lato tenero che caratterizza il personaggio di Roman, anche Riccardo riesce a commuoverci lasciando trapelare dal suo violento furore e dalla sua follia omicida – deformità quasi congenite del suo animo – un carattere insicuro, tormentato e spaventato dalla solitudine.
Entrambe le vicende si muovono verso un esito ineluttabile. Al re la propria dipartita è annunciata da un bianco ed evanescente fluttuare di sogni (sempre molto efficaci le proiezioni su garza curate da Marco Schiavoni), mentre a Roman lindizio della fine giunge sotto forma di una pioggia torrenziale e tuttaltro che catartica, che porterà inesorabile al tragico epilogo.
Ed è proprio nelle sequenze finali che Gassmann osa di più, con insolite inquadrature e un improvviso stacco a nero – chiusura che ci lascia spiazzati e increduli – sul quale si sentono solo il rumore della canna della pistola fra i denti e linvocazione disperata dellamico Geco.
Intensa la fotografia di Federico Schlatter, non solo quando indaga ombre e chiaroscuri ma anche nelle poche inquadrature a colori, quelle che narrano i sogni e i ricordi di Roman e lo “sballo” del suo Cucciolo.
di Ilaria Pellanda
|
|