Né “opera” né “dramma musicale”, Tristan und Isolde ebbe per Wagner la definizione di Handlung, ossia “azione”. È un termine sul cui reale significato drammaturgico si può discutere, ma a Mainz il regista Tilman Knabe lha preso alla lettera: impaginando la vicenda che daltronde parte in medias res come in nessun altro lavoro wagneriano è dato vedere con un piglio narrativo frenetico e virulento certo lontano dalla dimensione metafisico-speculativa di Wagner, ma che apre sul Tristano una finestra singolare.
Non cè spazio per la catarsi e in fondo neppure per lamore, nel Tristan di Knabe. Il suo occhio, in questo spettacolo, pare quello del cineasta più che del teatrante: la sapienza artigianale del palcoscenico e la stilizzazione allusiva dun epos che, senza il conforto della musica, potrebbe sembrare di cartapesta cedono il passo a un iperrealismo figurativo addirittura splatter, negli schizzi di sangue che devastano i personaggi, dove loggettistica (altoparlanti, cellulari, flebo, apparecchiature mediche da campo) rimanda assai più alla concretezza del set cinematografico che alla finzione del teatro. Anche se poi, come insegna Tarantino, quando liperrealismo travalica qualunque argine estetico lesito diventa fumettistico e, dunque, più irreale di ogni possibile artificio teatrale.
Ruth Staffa (Isolde) e Alexander Spemann (Tristan).
Credits: Martina Pipprich
La riscrittura drammaturgica allinterno di tuttaltra ambientazione lislamofascismo di una dittatura araba ai danni di un altro paese arabo più progressista è meno lontana dalloriginale di quanto possa sembrare: anche il libretto di Wagner prevede due paesi geograficamente e linguisticamente vicini (Cornovaglia e Irlanda), luno in veste dinvasore, laltro di soggiogato; e che a indossare labito da sposa musulmana, a Mainz, sia lIsolde bionda e luminosa di Ruth Staffa aggiunge allintreccio geopolitico un tocco israelita, che aumenta il gioco tra iperrealismo di facciata e irrealtà di fondo. Partendo da qui, la messinscena si dipana come un film di guerra: alcune soluzioni appaiono antimusicali (le teppistiche risatacce dei soldati, il trillare dei cellulari
), altre per forzate che possano essere mantengono in tale contesto uninnegabile coerenza di fondo (nel duetto damore Isolde, rivangando le antiche colpe dellamato, gli appioppa una ginocchiata nei testicoli). E va dato atto che il taglio cinematografico rende verosimile quellandirivieni da un ambiente allaltro della nave qui risolto dividendo la scena in tre spazi, mostrando contemporaneamente quanto avviene in ciascuno di essi che, nel primo atto del Tristano, è il problema di ogni regista.
Un momento della messinscena. Credits: Martina Pipprich
Tra unIsolde a mitra imbracciato e una Brangäne più propensa alla riflessione politica (Patricia Roach, con velo e occhiali da intellettuale) la primavera araba narrata da Knabe continua oltre lepilogo: «Mild und leise» non si chiude sulla morte e trasfigurazione della protagonista, ma sullimprovviso sbocciare di una bambina guerrigliera, cui altre ancora seguiranno. Con i personaggi maschili, invece, il “gioco” registico gira a vuoto: sottratto a qualunque cognizione del dolore che non sia quello puramente fisico, Tristan ne esce banalizzato; mentre re Marke voce della pietas wagneriana, qui trasformato in un dittatore sadico risulta completamente stravolto e diventa la falla di tutta limpalcatura.
Se Knabe è regista pressoché ignoto da noi (ha realizzato solo unAriadne auf Naxos a Montepulciano), la vera sorpresa per lo spettatore italiano in trasferta è però scoprire il livello di assoluta eccellenza della Philharmonisches Staatsorchester Mainz: attacchi adamantini, appiombo millimetrico con il palcoscenico, prime parti degne di grandi solisti. Splendido, in particolare, il corno inglese chiamato a “doppiare” la zampogna del pastore nellultimo atto; e la regia, mostrandolo in palcoscenico mentre duetta idealmente con Tristan (una citazione di certe Lucie di Lammermoor dove il flautista è a fianco del soprano nella vertiginosa cadenza conclusiva?), concede alleccellente strumentista un felice primo piano. Hermann Bäumer, dal podio, incanala lorchestra verso una lettura decisamente post-romantica: cercando sonorità metalliche e penetranti che ben si sposano con la visualità corrusca dello spettacolo, e concependo linesausto cromatismo tristaniano come ansia centrifuga più che voluttà di disfacimento.
Un momento dell'opera. Credits: Martina Pipprich
Il cast, tutto di elementi della compagnia stabile del teatro, sembra proiettarsi verso un Wagner tradizionalmente bayreuthiano, ossia immune da tentazioni liricizzanti e orientato verso unenfasi declamatoria daltronde coerente con quanto la regia mostra in scena che lascia poco spazio alla cantabilità, al legato e alla dinamica sfumata. La Staffa e la Roach hanno solidità demissione e sensibilità interpretativa, sicché, anche allinterno di questa griglia, i loro personaggi emergono con notevole rilievo plastico: luna molto carnale per voce e figura, con un “vibrato” di giusta e mai invasiva intensità che lascia intuire in lei pure una buona verdiana; laltra forse un po troppo circoscritta tra forte e mezzoforte per rendere, nel secondo atto, tutta la magia del canto fuori scena di Brangäne, ma sempre di grande forza espressiva e ottima tenuta vocale.
Gli uomini convincono meno. Alexander Spemann, nel duetto damore, si colloca nella media dei Tristani odierni (ossia è inadeguato ai desiderata wagneriani), mentre nel massacrante terzo atto è un po al di sopra rispetto a quella stessa media (ovvero non entusiasma, ma si difende). Baritono robusto e spigoloso, Heikki Kilpeläinen è il classico Kurwenal-soldataccio, privo di qualunque afflato lirico e idealista: e in questa prospettiva abbozza comunque un personaggio, ancorché a senso unico. Hans-Otto Weiss non sembra avere morbidezza e rotondità necessarie per dar voce al compianto di re Marke: ma è difficile cantare (e sarebbe ingiusto trinciare giudizi) quando il compositore indica una cosa, e il regista ne impone tuttaltra.
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