A volte basta poco per diffondere unimmagine stereotipata e riduttiva di un compositore, condizionandone a lungo lesatto apprezzamento critico. E il caso di Camille Saint-Saëns, musicista sovente citato per il suo presunto eccessivo conservatorismo, conosciuto quasi esclusivamente per gli aspetti severi e spigolosi del suo carattere.
Il discorso è in realtà più complesso. Lallestimento del “Samson et Dalila” presentato al Teatro dellOpera di Roma, unico frutto di una cospicua produzione teatrale a mantenere una circolazione sui palcoscenici di tutto il mondo, offre loccasione per alcune considerazioni. Si tratta di un lavoro dal carattere eclettico ed eterogeneo che trascende i limiti del Grand-Opéra, ponendo in essere una dialettica intensa fra riferimenti passatisti ed aperture al nuovo che non possono essere ignorate, e non è un caso che la prima esecuzione ebbe luogo a Weimar nel 1877 con il beneplacito di Liszt. Certamente, approcciando il racconto biblico, Saint-Saëns ha ben presente lesempio delloratorio haendeliano, dal quale deriva luso del coro quale elemento privilegiato di coesione, mentre nel grande duetto del secondo atto si riconosce facilmente il modello del “Tristan”. La vicenda di Sansone ha in sé una tragica grandezza. La forza del protagonista risiede nellaccettazione del proprio destino, il suo trionfo è anche la sua fine. Da questi elementi scaturisce unopera di ammirevole solidità formale e di grande sapienza contrappuntistica, screziata dai languori di una sensualità estenuata e da un melodismo accattivante, ma anche percorsa dai fremiti del nascente Novecento.
Olga Borodina in scena. Credits: Lellie Masotti
Se Saint-Saëns è sovente ricordato per la sua ostilità nei confronti della “Sagra della primavera” di Stravinskij, ugualmente occorrerebbe sottolineare che, senza la sua opera, forse anche il genio di Ravel si sarebbe espresso diversamente. Il “Samson et Dalila” torna a Roma dopo un cinquantennio di immeritato oblio; lultima rappresentazione risale infatti al 1963, interpreti allora gloriosi come Giulietta Simionato, Mario Del Monaco e Giangiacomo Guelfi. La creatività moderna e visionaria di Carlus Padrissa è perfettamente funzionale ad un rinnovamento radicale nella messa in scena di questo titolo. Nessuna concessione allesotismo dunque, ma uno spettacolo dal carattere atemporale, pregno di tutte le peculiarità che hanno reso famosa lestetica del gruppo catalano de La Fura dels Baus; la proliferazione dei segni (i numeri ed i codici che rimandano allattualità), la singolare alchimia fra tecnologia e fisicità, labbattimento della barriera fra palcoscenico e spettatore (i mimi che entrano in platea puntando le torce verso il pubblico), luso delle proiezioni (particolarmente incisivi i primi piani che sembrano rimandare a certe immagini indimenticabili del cinema di Dreyer), lestrema economia e luso intelligente dei mezzi a disposizione (la seduzione avviene su di una sorta di letto composto da moduli separati, mentre i fiori utilizzati nel balletto del primo atto, elementi polifunzionali e multiformi, posizionati luno sopra laltro divengono le colonne che Sansone farà crollare nel terzo).
Un momento dell'opera. Credits: Lellie Masotti
Loggetto si carica in tal modo di significati simbolici, il suo ritorno ciclico disegna un arco unitario attraverso lintera rappresentazione. La Fura propone una lettura meno barocca e spettacolare del solito che, traducendo le convenzioni del Grand-Opéra in unottica minimalista, asseconda il carattere oratoriale dellopera. Anche lorgia dei Filistei precedente la catastrofe, solitamente luogo del kitsch più sfrenato, diviene un gioco sottile e spietato fra aguzzini e prigionieri, con le funi a simboleggiare la perduta possanza di Sansone. Egli è luomo del nostro tempo, dapprima legato alle proprie effimere certezze, in seguito smarrito e piegato dal contatto con la realtà. Per ritrovare sé stesso dovrà sperimentare la caduta, viatico necessario allavvio di un percorso catartico che lo affranchi dalle proprie debolezze. Esteticamente criticabile il costume di Sansone, il quale appare come un supereroe dei fumetti, con i calzoncini corti, la tuta che mostra i muscoli possenti ed i capelli acconciati in lunghissime treccine. Più sobrio labbigliamento di Dalila, alla quale il colore nero dona un tocco da crudele seduttrice. Di buon livello complessivo lesecuzione musicale. Magistrale la lettura di Charles Dutoit, il quale dimostra unaffinità profonda con questa musica. La sua interpretazione sfugge gli eccessi romantici esaltando la morbidezza delle linee strumentali, le preziosità armoniche e timbriche della partitura. Ne scaturisce un Saint-Saëns per nulla accademico e tradizionalista, il quale semmai prefigura Ravel e persino Stravinskij.
Un momento della messinscena. Credits: Lellie Masotti
Aleksandrs Antonenko, già magnifico interprete dell “Otello” diretto da Muti allOpera nel 2008, conferma le sue pregevoli doti di tenore drammatico. La voce è robusta e sicura in tutti i registri, duttile nel fraseggio. Il suo è un Sansone potente, ma anche sgomento e profondamente umano nella propria miseria. Un gradino al di sotto la Dalila di Olga Borodina la quale, pur sfoggiando un timbro molto bello ed un registro grave corposo, denuncia un certo declino vocale, risultando inoltre gelida dal punto di vista interpretativo. Discreto il Gran Sacerdote di Elchin Azizov, solido al centro ma esile in zona acuta, efficace Dario Russo nel breve intervento del vecchio ebreo. Una menzione meritano infine i complessi dellOpera, letteralmente trasformati in senso positivo rispetto allera precedente lavvento di Muti.
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