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L'otto marzo della Muette de Portici

di Giovanni Fornaro
  La muette de Portici
Data di pubblicazione su web 28/03/2013  

 

Davvero indovinate le scelte della rinnovata Fondazione Petruzzelli di Bari - commissariata da Carlo Fuortes e col nuovo direttore artistico Daniele Rustioni - per questa stagione operistica: prima Otello di Verdi con la regia di Nekrosius, ora, come secondo titolo e dall’8 marzo 2013, un melodramma che ha fatto la storia del genere, ma che non viene rappresentato da tempo in Italia, La muette de Portici, libretto di Eugène Scribe e Germain Delavigne, musica di Daniel-François-Esprit Auber, co-prodotto dall’Opèra Comique di Parigi (dove è già andato in scena l’anno scorso) e dal Théâtre de la Monnaie, Bruxelles.

 

Otto marzo. Forse non è casuale aver collocato la “prima” in quel giorno lì, se consideriamo che la protagonista è una giovane donna di umile estrazione, sedotta e abbandonata, disabile (non parla: la “muta”, appunto) e, soprattutto, che la regista, Emma Dante, ha sempre posto al centro del suo teatro la condizione e le sofferenze delle donne. D’altra parte, l’artista siciliana ha dichiarato (cfr. Prima della prima, Rai3, 19 marzo 2013) che la sfida dell’opera di Auber è proprio quella di imbastire uno spettacolo in cui tutti hanno voce - cantando! - tranne la protagonista.

 


Foto di Carlo Cofano

 

La quale, Fenella, non è che l’immaginaria sorella di un capopopolo quale Masaniello, sfortunato protagonista, come si sa, della rivolta napoletana del 1647 contro il vicerè spagnolo. È il figlio di questi, Alfonso, ad aver avuto un affaire con la ragazza, sebbene fossero imminenti le nozze con la principessa Elvira, quando compare all’improvviso la popolana, fuggita dal carcere dove opportunamente Alfonso l’aveva fatta rinchiudere. Le due donne scoprono quasi contemporaneamente di quale pasta sia fatto il principe, la nobile con straziante ma interiorizzato dolore; l’altra invece esprimendo una frustante rabbia. Qui Dante pone con forza la propria impronta, rendendo Fenella davvero una Erinni, dalla bocca spesso spalancata in un muto grido (come per la figura mitologica) e dalla indomita forza animale, una vera e proprio belva ferita nella dignità, prima che nel corpo.

 

Fenella era, nelle intenzioni degli autori dell’opera, un espediente tecnico-narrativo volto a introdurre la figura di una danzatrice che rimane quasi costantemente in scena inaugurando, con questa e altre innovazioni (balletti frequenti, mimi, grandi scene di massa, ambientazione storicamente caratterizzata, estese scene corali, sfarzo negli allestimenti) il genere (tutto francese) del grand-opera.

 

A centottantacinque anni dalla “prima” (Parigi, 29 febbraio 1828), Dante si appropria di questo topos per fini affatto diversi, direi socio-culturali: mostrare in quali modi chi è “ultimo” - perché donna, povera, sorella di un famoso ribelle, priva della voce, apparentemente penalizzata dalle modalità espressive del genere (il canto) - possa trovare la propria fierezza, prima lottando contro i poteri forti con i quali ha dovuto confrontarsi e poi, incredibilmente, rinunziando alla vendetta per aiutarli, in una sorta di umana e compassionevole pietas che marca fortemente la consapevolezza di sé e della propria etica di vita.

 

Accade così, nella seconda parte dell’opera (originariamente in cinque atti, nell’allestimento barese con due soli intervalli), che Fenella consenta ad Alfonso ed Elvira la fuga da Napoli durante la rivolta, anche se poi il fratello Masaniello dovrà difendere questa posizione contro i suoi stessi compagni, i quali non gli perdoneranno il tradimento alla causa e lo uccideranno.

 

Cosa è rimasto del grand-opera nell’allestimento di Emma Dante e dei suoi collaboratori (Carmine Maringola per le scene, Vanessa Sannino per i bellissimi costumi, Cristian Zucaro per il disegno delle luci, Sandro Maria Campagna per le coreografie)? Vorrei dire: il “respiro”. Si percepisce una profondità psicologica che dal vissuto più doloroso dei protagonisti sale fino a emergere per farsi Storia.

 

Aiuta molto, in questa lettura, la presenza quasi costante del popolo, uno dei veri protagonisti, che si estrinseca soprattutto nell’azione del notevole coro residente del Teatro Petruzzelli, curato da Franco Sebastiani (la pagina più bella: il coro “a cappella” della fine del III atto, quasi una Marsigliese popolare a bassa voce, intenso ed emozionante), molto evidente nelle scene del mercato, all’inizio del II atto. Ma sono interessanti tutte le scene di gruppo, in particolare degli attori-mimi che appaiono vestiti quasi come dei militari dei ROS e si producono in molti movimenti di scena, fra i quali la bella tarantella di Auber, resa singolare quanto sinistra da una sorta di contro-tempo (il ritmo del ballo è differente da quello ternario della musica). 


Le soluzioni scenografiche trovate da Dante e Maringola, sebbene suggestive, suscitano invece qualche perplessità. Sul palcoscenico, sia gli sfondi che le quinte mobili sono costituite da una serie di porte, spostate o calate dall’alto alla bisogna, dalle quali i personaggi entrano ed escono, creando e disfacendo barriere. Costituiscono una soluzione meramente tecnica? Oppure hanno un valore simbolico e psicologico? Francamente, non si è capito, e questa indeterminatezza non giova né al ductus narrativo né alla fruizione estetica.

 

La partitura, bella ma non indimenticabile, se non per alcune pagine che ho già citato o per la dolce e famosa Barcarolle cantata da Masaniello all’inizio del II atto, oltre a qualche taglio qui e lì, è sottoposta dal direttore Alain Guingal ad una serrata analisi, i cui risultati sono davvero eccezionali quanto a precisione ed espressione, grazie alla rinnovata (e si sente) Orchestra  del Teatro Petruzzelli.

 

Nel cast vocale, tutto di ottimo livello e dalla perfetta dizione francese (cosa che dovrebbe essere scontata, ma spesso non lo è), si segnala soprattutto la bravissima Maria Alejandres (Elvire) impegnata in arie spesso molto difficili, Michael Spyres (Masaniello), dal bel timbro e dalle notevoli doti attoriali, e il bass-baritono Massimo Colaianni (Borella).

 

Bravi quasi tutti gli altri: Maxim Mironov (Alphonse), Christian Helmer (Pietro), Miguel Àngel Lobato (Lorenzo), Mikhail Korobeinikov (Selva) Caterina Daniele (Coryphèe) e Gianfranco Cappelluti (pescatore).

 

Su tutti, giganteggia la prova della ballerina Elena Borgogni che a Bari, come già riferito, non balla ma si muove indomita come una forza naturale, una belva ferita che, anche in finale, non subisce passivamente ma sceglie di non sopravvivere al fratello: mentre nel libretto si suicida gettandosi nel Vesuvio in eruzione, qui la regista la sublima, ponendola sulla cima di una doppia scalinata (che ricorda il vulcano), trasfigurata  nell’iconografia di una madonna, annichilita da un grido muto.

 

 

La muette de Portici



cast cast & credits



 
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