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La gioventù di Falstaff

di Paolo Patrizi
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Data di pubblicazione su web 26/03/2013  

 

«Guardate! Io sono ancora una piacente estate di San Martino», sillaba con suadente compiacimento il maturo e panciuto Falstaff ai suoi manutengoli Bardolfo e Pistola. Ma a Fano, al contrario che a Windsor, tanta malinconica illusione non è necessaria: i cantanti sono giovani o giovanissimi e visto al naturale, senza l’addome posticcio, il ventinovenne Sergio Vitale ricorda più il protagonista «quand’era paggio del Duca di Norfolk» – ovvero quando era «sottile sottile sottile» – che non il declinante e pletorico Sir John mostrato da Verdi e Boito all’Osteria della Giarrettiera. È certo un bell’azzardo affidare Falstaff – opera di maturità e opera di vecchiaia – a un cast quasi tutto under 30; tanto più che, dal title role ai ruoli in apparenza più defilati, non un solo personaggio può fare a meno di interpreti di alta musicalità e sapiente istinto teatrale: Toscanini concedeva assai poco al protagonismo dei cantanti, ma era solito parlare dei “dieci protagonisti del Falstaff”.

 

Nell’insieme, pur tra qualche scollamento, una scommessa vinta: che tra l’altro riporta al centro dell’attenzione il bellissimo Teatro della Fortuna – uno dei gioielli del nostro Ottocento architettonico – e la programmazione fanese, da qualche tempo impantanatasi nella routine dopo alcune stagioni stimolanti. D’altronde, in spettacoli come questi, compito del critico è individuare le potenzialità di ciascuno (e ipotizzare le modalità migliori per metterle a frutto) piuttosto che imbarcarsi in disamine da microscopio. Dunque, per cominciare, si dirà che il giovane baritono Vitale mostra una voce gradevole e ben emessa (il falsetto è infelice, ma questo l’accomuna a interpreti ben più celebri), capace all’occorrenza di un buon legato e supportata da un’ottima dizione: se il suono tende talvolta a stimbrarsi è solo perché Falstaff non è un paese per giovani, e uno strumento più maturo e meno fresco avrebbe gestito con minori contraccolpi l’urto dei fagotti alla frase «In quest’addome c’è un migliaio di lingue che annunciano il mio nome». In ogni caso, il suo appeal giovanile non si traduce in acerbità: semmai apre una finestra nuova sul personaggio.
 


Sergio Vitale è Sir John Falstaff (Foto: Amati Bacciardi)


 L’altro baritono, il moldavo Valeriu Caradja, sfoggia mezzi più robusti, ma pure – inevitabilmente – una minore idiomaticità, sebbene la pronuncia italiana sia molto buona. In ogni caso, la dialettica con Vitale funziona bene: ne sortisce un duetto Falstaff-Ford efficace, tra la sornioneria dell’uno e la grinta dell’altro, anche se nessuno dei due artisti vanta per ora la zampata dell’autentico commediante. Circa i tenori, uno spettacolo concepito come laboratorio di giovani non crea priorità: in questo gioco di squadra l’amoroso Fenton e i caratteristi Cajus e Bardolfo potrebbero essere intercambiabili e, anzi, il primo (l’argentino Pablo Karaman) mostra un registro acuto assai più garibaldinamente gestito dei due colleghi. D’altronde Matteo Mezzaro è un Cajus senza tentazioni caricaturali, ottimo stilista nella sua vocalità leggera ma non esile; e Cosimo Vassallo un Bardolfo più scatenato, ma non scomposto. Quanto a Pistola, la scrittura di basso profondo da utilizzare in senso comico ne fa, anche in questo caso, un ruolo poco propizio a una voce giovane. Emanuele Cordaro, ventiseienne, non ha ancora acquisito la necessaria sostanziosità vocale: nel frattempo risolve con un fraseggio di sobrio umorismo e un accento sempre calzante.


La gioventù del cast rischia pure di livellare quel divario generazionale che, nel Falstaff, è uno dei motori dell’azione: tra una Nannetta freschissima (Maria Elena Lorenzini) e un’Alice addirittura esordiente (Zhala Ismailova) il rapporto madre-figlia qui parrebbe addirittura ribaltato. Il pericolo di una certa omogeneizzazione, soprattutto sotto il profilo timbrico, è dietro l’angolo – con due quasi coetanee la differenza tra una sensualità matronale e una appena sbocciata non è palpabile, in termini di suono – ma il talento e le ottime qualità naturali delle due cantanti sono il migliore antidoto: la Ismailova mostra, negli scatenati intrecci polifonici, una precisione musicale latitante in molte illustre Alici del passato, mentre la Lorenzini unisce uno squisito lirismo a fiati lunghissimi (stupefacente in tal senso il suo «Anzi rinnova come fa la luna»). E Anna Konovalova è ben più di una spalla, plasmando una Meg d’insolito risalto vocale e sempre a fuoco nei concertati.

 

Unica veterana del cast, Elena Zilio non è però – tra tanti pulcini – una chioccia voluta a tavolino: il progetto originario prevedeva anche per Quickly una giovanissima, e solo l’improvvisa indisposizione della titolare ha portato a quest’illustre ripiego. I molti decenni di carriera le lasciano qualche segno in termini di omogeneità del suono, non di volume: ma è proprio la sua maggiore sonorità e sostanziosità, rispetto ai più freschi colleghi, a creare qualche scompenso. E questa Quickly inequivocabilmente matura appare, per le altre comari di Windsor, più come una zia mefistofelica che una compagna di burle; così come, nel duetto della «reverenza», la gioventù di Vitale fa sembrare Falstaff quasi un suo nipotino, anziché dar vita a quello scontro alla pari tra due scaltrezze e due cialtronerie che Verdi aveva concepito.

 


un momento dello spettacolo (Foto: Amati Bacciardi)

 

Il suo inossidabile mestiere resta però un faro per i giovani colleghi, tutti d’altronde ben sostenuti dalla direzione di Roberto Parmeggiani, sempre attenta alle esigenze vocali, e amorevolmente inquadrati uno a uno dalla regia di Ivan Stefanutti. Il primo, costretto a qualche sfoltimento di leggii a causa della piccola buca del teatro, rinuncia a protagonismi orchestrali – ma l’Orchestra Sinfonica Rossini è comunque un ensemble di alto professionismo – in favore di una lettura chiara, espositiva, che non rende evidenti tutte le squisitezze strumentali ma si preoccupa di accompagnare le voci e raccontare una storia; e anche le trappole di appiombo ritmico disseminate dalla partitura vengono (quasi) tutte aggirate senza incidenti.

 

Stefanutti, dal canto suo, è uno dei pochi scenografi passati alla regia che accoppiano il senso estetico al senso del teatro: non tanto per il lavoro sulla recitazione dei cantanti, quanto per un uso delle luci e degli spazi assai più evocativo che calligrafico. Le porte e i finestroni a forma di botte dell’Osteria della Giarrettiera trasmettono l’idea di una penombra calda e accogliente, un rifugio dove Falstaff può consumare la propria decadenza con aristocratica mascalzonaggine e distinto epicureismo; gli interni di casa Ford sono più borghesi e pacchiani, con uno stridore cromatico speculare all’acidità cattiva del loro piccolo mondo consumistico; e se il versante comico inclina – nella regia di Stefanutti – verso un farsesco mai sguaiato ma comunque abbastanza prevedibile, il trapasso dal realismo della commedia al mondo fatato dell’ultimo quadro (nodo insoluto per tante messe in scena del Falstaff, e forse anche per Verdi) qui risulta fluido e di scintillante naturalezza.


 

Falstaff



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