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Tre sorelle

di Siro Ferrone
  Tre sorelle
Data di pubblicazione su web 12/02/2013  

Per ricordare Massimo Castri, recentemente scomparso nel gennaio 2013, ripubblichiamo la recensione ad un bello spettacolo che il grande regista toscano aveva firmato nel 2007. Una carriera prestigiosa, iniziata negli anni Sessanta come attore teatrale e cinematografico, apertasi alla regia alla Loggetta di Brescia prima di approdare alla direzione della Biennale Teatro di Venezia, del Teatro Metastasio di Prato e del Teatro Stabile di Torino. Con le sue regie ha proposto una rilettura critica innovativa dei testi pirandelliani, di Ibsen, di Čechov, dei tragici greci e più recentemente di Goldoni e di Beckett.

 

Tre sorelle di Cechov per la regia di Massimo Castri è uno spettacolo che non deve perdere chi ama il teatro come arte. Quell'arte difficile fatta di tenacia e di passione, che tanto manca oggi in Italia. Fatta di puntiglio e di indignazione nei confronti della sciatteria circostante. Fatta anche di dedizione assoluta alla lettura critica dei testi. Uno spettacolo come questo è all'altezza delle migliori regie europee contemporanee. Sta a disagio nella penisola nostra contemporanea.

È quel testo di Cechov uno dei capolavori della drammaturgia di tutti i tempi, difficile da maneggiare per la ricchezza dei suoi significati e per la straordinaria concertazione di azioni e personaggi già perfettamente iscritta nel testo. Massimo Castri si è servito di un ritmo disteso e di una disposizione spaziale di ampio respiro, evitando di semplificare e di sottolineare, ma solo suggerendo con avveduta maestria, le infinite risonanze del testo.


La partitura del suo concerto per parole e gesti è fatta di onde lunghe e di riprese tonali. E così disegna la malinconica catastrofe di una generazione che non appartiene solo alla Russia di allora. Nella sommessa o gridata ansia di fuggire il presente e di raggiungere una meta agognata ("A Mosca a Mosca!") Cechov ha scritto con un secolo di anticipo tutte le frustrazioni del nostro tempo, che Castri ha collocato crudelmente in una lucida e smagliante scenografia (magistrali come sempre le luci di Gigi Saccomandi, fedele suo collaboratore). Dentro quella luce, calpestando un arso e aspro territorio lavico, davanti a fondali immensi e monocromi che li fanno apparire più piccoli, intorno a un tavolo-totem (la scena è opera dell’altro fedele compagno d’arte, Maurizio Balò), gli attori e le attrici si agitano invano: ricordano, progettano, si impongono, si ritirano, sbattono le ali contro le pareti di cristallo della loro impotenza. In questo modo, senza perdere contatto con la tessitura narrativa ottocentesca cechoviana, Castri fa slittare il dialogo e le azioni verso un non-senso che ha il sapore della drammaturgia di Beckett (referenza che lo stesso regista ha citato in un'intervista pubblicata nel programma di sala).


La musica del testo (una musica ora rotta e ora melodica, ora dissonante e ora "di maniera") prevale a ondate sui contenuti, in un concertato che richiede agli attori una difficile tensione, almeno nelle parti principali. Ma tutto il "concerto" pare tanto convincente quanto misurato in molti dei suoi strumenti. Le tre sorelle (Bruna Rossi, Alice Torriani, Laura Pasetti) compongono una scala cromatica ascendente dal sussurrato al grido, rispetto alla quale fanno da contrappunto sonoro la melodia monocromatica di Sergio Romano (Veršinin) e Paolo Calabresi (Kulygin), gli acuti grotteschi di Claudia Coli (Nataša) e la nevrosi sincopata dell’ottimo Mauro Malinverno (Prozorov). Castri ha saputo conciliare la lettura psicologica con i valori musicali e Cechov ne è uscito tutto intero e, come sempre quando chi lo legge lo sa rispettare senza esserne soggetto, tutto nuovo e inerpicato su una profondità che fa sgomento. Castri ci fa naufragare in questa profondità suggerendo sgomento e malinconia.

Ben congegnata e equilibrata mi è parsa la traduzione. E se la mia modesta competenza in materia mi impedisce di svelarvene l'autore, occorre aggiungere che né il programma di sala né i fogli volanti distribuiti al pubblico ne fanno cenno. E questo non è un bene.

                                                                                 
 



 
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