Sud
degli Stati Uniti, 1858. Un cacciatore di taglie tedesco, il Dott. King Schultz
(Christoph Waltz), assolda uno
schiavo nero, Django (Jamie Foxx),
per farne il suo complice. Presto tra i due nasce una sincera amicizia, che li
porterà a collaborare oltre il “contratto di lavoro”, per liberare Broomhilda,
la moglie di Django (Kerry Washington),
schiava nella piantagione dello spietato Calvin Candie (Leonardo Di Caprio). I fan di Quentin
Tarantino lo aspettavano da anni e finalmente è arrivato: grande ammiratore
del western e segnatamente dello spaghetti-western, il regista ce ne ha
regalato uno tutto suo, a cinque anni da quel Sukiyaki Western Django (Takashi Miike, 2007), nel quale
interpretava il pistolero Piringo. Fitto di citazioni e omaggi al western
allitaliana, Django Unchained è
insieme un condensato degli stilemi che hanno fatto la fortuna del regista e di
quelli del western allitaliana. La matrice è evidente fin dai titoli di testa
in rosso, con la canzone Django (di Luis Bacalov e Franco Migliacci) cantata da Rocky
Roberts in sottofondo, che rimandano inequivocabilmente al Django di Sergio Corbucci (1966), così
come la presenza nel cast di Franco Nero
- che di quel film era linterprete principale -, della setta degli “incappucciati”, ecc. La trama è una sorta di
condensato di Per qualche dollaro in più
(Sergio Leone, 1965) - si pensi alla figura del Monco, cacciatore di taglie -, Il buono e il brutto e il cattivo
(Sergio Leone 1966) - vedi il duello finale al cimitero - e tanti altri western “di casa nostra” che
hanno fatto scuola al cinema americano proprio sul suo territorio. Il tutto
sottolineato da una colonna sonora nella quale si distinguono i temi composti
da Ennio Morricone, che di quel
genere è stato “la musica” e la canzone Ancora
Qui composta con e cantata da Elisa.
Tarantino
tuttavia, lungi dallappiattirsi su un repertorio tanto ricco e
monumentalizzato dal tempo, alla già nutrita ricetta di base aggiunge gli
ingredienti preferiti del pulp o exploitation-movie che dir si voglia,
col corredo di brandelli di carne esplosa e sangue in abbondanza che ci si
aspetta e loriginale idea di fare di un nero un cacciatore di taglie, due anni
prima di quella guerra civile che avrebbe portato allabolizione dello schiavismo
negli Stati Uniti.
A
fare il western è in primo luogo il paesaggio, protagonista al pari – e forse
più – degli attori principali della vicenda narrata. E questo Tarantino lo sa
bene, come dimostrano i giochi di messa a fuoco figura-sfondo e i campi lunghi
e lunghissimi con gli interpreti ridotti a minuscole sagome - nella lunga
sequenza invernale o negli appostamenti ad esempio -, in cui è spesso la natura
spettatrice indifferente a farla da padrona. Del resto, per dirla con Bernardi, il western «non evita
il mistero della natura e del paesaggio ma li addomestica, li controlla. I
personaggi si trovano in una relazione dialettica con lambiente, lo subiscono,
lottano contro di esso, ma ne fanno anche parte. […] La grande forma western è
basata sullequivalenza paesaggio-natura,
dove per natura sintende però lanima, la natura interiore, una natura
immaginaria e romantica»1. Quella
di Django, nel nostro caso.
Così,
se le scene dazione nel mood pulp consentono al regista di
sbizzarrirsi in un montaggio rapido e fitto di tagli e angolazioni impreviste,
è nelle scene più propriamente “western” che la camera trova un più esteso orizzonte
o dà luogo alliconografia eroica del genere, col catalogo di inquadrature che
ne consegue: il prode cowboy a cavallo ripreso dal basso oppure di spalle, in
primo piano, col nemico che sta per essere freddato appena distinguibile in
campo lungo.
Tutto
questo condito da una copiosa dose di ironia, sia nella sceneggiatura, ricca di
dialoghi serrati e taglienti, che nei costumi: da quello improponibile che il
novello uomo libero Django sceglie come divisa a quello di una delle schiave
che popolano Candyland, che spicca per lorlo troppo corto e unacconciatura
caricaturale. Ancora, si pensi ai cappucci degli “squadristi” del caso, le cui
fessure per gli occhi risultano troppo piccole, ecc.
Django unchained è senza dubbio
un gioco cinematografico: di generi, di inquadrature, di ruolo, dove ognuno può
immedesimarsi nelleroe del caso e sentirsi invincibile per 165 minuti.
Sorprende un po perciò, a più di ventanni di distanza da Le iene (1992), trovarsi ancora di fronte alle sterili polemiche
che hanno accompagnato luscita del film nelle sale americane, tacciandolo di
eccessiva violenza e che hanno fatto il giro del mondo in breve tempo. Evidentemente
le regole di questo gioco qualcuno non le ha ancora capite o finge di non
averle capite…
Citazioni,
iperboli (corpi che saltano indietro di metri e metri per uno sparo, zampilli
di sangue infiniti, ecc.), la presenza di un cast di professionisti arcinoti
(oltre ai protagonisti già citati, Samuel
L. Jackson e Don Johnson in due
vistosi cammei), lesplicito riferimento wagneriano (a L'anello del Nibelungo) e limmancabile “messa in quadro” del
regista stesso, costituiscono un costante promemoria per lo spettatore,
ininterrottamente consapevole del proprio ruolo nel gioco. È evidente: il
Tarantino-film funziona come una giostra sulla quale si sale, si fa un giro e
poi si scende, quando si riaccendono le luci. Troppi gli ammiccamenti al
pubblico, lungo tutto il film, per dimenticarlo.
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