Con La migliore offerta, Giuseppe Tornatore prende momentaneamente le distanze dal microcosmo siciliano, luogo delezione e fil rouge della sua filmografia (da Nuovo cinema Paradiso, 1988 a Baarìa, 2009), per realizzare un film di respiro internazionale, sia nelle location (Roma, Trieste, Vienna e Praga, tra le altre), che nella forma linguistica, dacché è girato in inglese, sebbene distribuito in Italia in versione doppiata. Del resto anche il cast è internazionale: accanto a professionisti di fama e comprovata abilità come Geoffrey Rush – ormai un habitué dei ruoli da gentleman inglese (si pensi a Il discorso del re, Tom Hooper, 2010) – e Donald Sutherland (nei panni dellamico e collega Billy), che non si smentiscono, recitano i più giovani Jim Sturgess e Sylvia Hoeks, attrice olandese emergente, nel ruolo di unagorafobica improbabile, coerentemente con il successivo sviluppo del dramma.
Virgil Oldman (Geoffrey Rush) è un solitario e misantropo battitore dasta. Appassionato intenditore dopere darte, ha costruito una solida barriera, non solo metaforica, tra sé e il resto del mondo, come dimostrano i guanti che indossa persino mentre mangia e toglie solo per saggiare i capolavori della sua collezione. A sconvolgere il suo ordinato e autarchico modo di vivere interviene lunica variabile che un uomo come lui – allapparenza un freddo calcolatore – non è preparato a gestire: lamore per una donna molto più giovane. È Claire (Sylvia Hoeks), bella come uno dei pezzi della sua collezione, che, in seguito alla morte dei genitori, lo contatta per vendere – o forse no – la casa di famiglia e tutti i beni al suo interno. Afflitta da grave agorafobia, la ragazza vive da anni chiusa in casa, con laiuto del vecchio portiere che di tanto in tanto le porta un po di spesa. Mentre le vicende di due personaggi tanto peculiari a poco a poco sintrecciano, parallelamente si sviluppa un motivo narrativo altrettanto affascinante: raccogliendo a poco a poco alcuni pezzi che puntualmente porta a un giovane restauratore, Virgil riscopre la figura di un automa del 1700, che solo alla fine del film vedremo tragicamente ricostruito nella sua interezza. Costruito come un giallo, nonostante un materiale di partenza – lavvincente trama e un ottimo cast – di grande potenziale, il film in parte crolla su se stesso come un castello di carta. Tornatore, evidentemente più interessato alla vicenda psicologica e sentimentale – ha dichiarato recentemente che si tratta in primo luogo della storia di un uomo che impara ad amare – che a un mistery movie, non insiste a sufficienza (attraverso modalità di ripresa e impiego della musica ad esempio) sui motivi della suspense e dellinquietudine, rinunciando così in partenza a quella che poteva essere una chiave di lettura vincente del film. Peccato, è uno spreco di potenzialità artistiche, narrative, autoriali.
In effetti per le musiche il regista si è affidato ancora una volta alla sapiente orchestrazione di Ennio Morricone, il quale è avvezzo a comporre prima ancora che il film sia ultimato. È forse imputabile a questo sfasamento temporale che le musiche pur molto belle del Maestro non contribuiscano spiccatamente al crescendo ansiogeno del film, aderendo alle singole sequenze.
Caratterizzato da un montaggio invisibile e più in generale da uno stile registico che dissimula la presenza della macchina da presa attraverso il ricorso prevalente a inquadrature fisse, La migliore offerta tradisce una certa disomogeneità: il filo narrativo della ricostruzione dellautoma risulta posticcio, non amalgamandosi a sufficienza con il resto della trama. Infatti, pur indiscutibilmente affascinante, esso è per così dire “in esubero” e appesantisce un tutto diegetico già di per sé armonico e autoconcluso. Non sappiamo se sia questa una delle due “storie nel cassetto” che Tornatore ha dichiarato di aver mixato per realizzare La migliore offerta, fatto sta che se ne sarebbe potuto benissimo fare a meno e il film avrebbe retto comunque e forse meglio, ché il nucleo narrativo principale è magistralmente architettato. Il plot si svolge in unatmosfera senza tempo, risultato della fittizia città mitteleuropea in cui è ambientato – sincretismo di più paesaggi urbani e dunque carica del variegato sostrato culturale che ne deriva – e dello stesso mestiere di Virgil. Quella del battitore dasta e più in generale dellesperto di storia dellarte e di pittura è una professione che sottrae il protagonista alla contingenza del suo tempo, per consegnarlo a una dimensione sovratemporale, quella dellArte, che laddove è riconosciuta tale, a quelletichetta rimane consegnata per sempre, al di là dei limiti cronologici. Stride con questa atemporalità della realtà diegetica, la modernità rappresentata dal giovane restauratore Robert (Jim Sturgess), dalla di lui fidanzata e finanche da Claire, laddove il suo unico collegamento con il mondo esterno è affidato alla modernità della tecnologia: cellulari, gps e internet sono i simboli di una gioventù che riconsegna la storia alla contemporaneità. Una scelta senza dubbio voluta e motivata: è chiaro che si tratta di un contrasto volto a dare risalto allisolamento autoimposto nel quale vive Virgil; tuttavia a nostro avviso proprio questa opzione disperde risorse preziose per la creazione di una dimensione altra – quella del film – che a meno che non si tratti di un documentario o di un progetto sperimentale, deve irretire lo spettatore attraverso la fascinazione della finzione che tesse. Lirrompere della contemporaneità in un universo atemporale sottrae cioè credibilità alla fiction, qualcosa che paradossalmente avrebbe potuto invece essere salvaguardato da una collocazione temporale più datata, negli anni Trenta in cui iniziava Baarìa ad esempio, perché nel “teatro della memoria” tutto assurge ad uno status ideale e perciò stesso atemporale. Non a caso un altro film in cui ha luogo la rocambolesca ricostruzione di un antico automa, Hugo Cabret (Martin Scorsese 2011) era ambientato negli anni Trenta. Certo si sarebbe trattato di unalternativa più manierata e probabilmente più scontata, ma sarebbe pur sempre rimasto il coefficiente di originalità dato dal plot e del resto Tornatore non ci risulta essere un regista sperimentale. E questa non è unoffesa né un complimento, ma – parafrasando un suo titolo – una pura constatazione.
Lontano dalla sua Sicilia, stordito dalle troppe location e dalle storie che si affollano nel suo cassetto, il regista sembra un po disorientato, ma non del tutto fuori rotta.
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