I problemi della scelta di un testo classico come Edipo e del modo di rappresentalo, si ripresentano anche in codesta edizione del Teatro Stabile di Genova, diretta da Marco Sciaccaluga. Stavolta è la traduzione di Edoardo Sanguineti a determinare la lettura e linterpretazione dellopera di Sofocle (come lo fu nel 1980 per la regia di Benno Besson). La complessità dellopera ha richiesto impegno e rigore particolari per la realizzazione odierna. Certo, leffetto del primo impatto col linguaggio usato dai personaggi attuali, è di stupore e curiosità. La verifica della stranezza si ha immediatamente nel pubblico più giovane che, alla «prima», dimostra come le dislocazioni sintattiche e le irregolarità grammaticali siano percepite significative. Il sorriso che suscita linsolito parlato è sintomo di sorpresa per lallusione a una realtà più profonda. Ciò che nellespressione in lingua corrente sarebbe sanzionato come erroneo, è qui ostentato quale connotazione linguistica dellinvenzione esegetica. Sanguineti, autore secondo di Edipo tiranno, impone un calco italiano che del verso dorigine mantenga le slogature e le sincopi ritmiche (dove tiranno è epiteto funzionale e non attributo del sovrano) e che inoltre denoti il mondo rappresentato come arcaico e primordiale. È la discutibile prepotenza che può rivelarsi feconda e che il regista assimila e fa propria, trasmettendola a una Compagnia dalla dedizione e collaborazione convinte.
Una scena d'insieme dello spettacolo (Foto M. Norberth)
Lo spettacolo, analizzato nelle sue componenti visive e simboliche; della recitazione in rapporto appunto ai vincoli testuali, offre a prima impressione la visione duna storia ambientata in unepoca quasi preistorica, in cui il campione umano e sociale si trovi allo stadio infantile dellapprendistato, guidato alla consapevolezza esistenziale da una inappagabile curiosità. Edipo analogo a Prometeo, insomma, portatore della passione per la conoscenza, col risultato che il suo fuoco doni la sapienza rischiosa del confondersi di bene e male nellunicità della persona.
Ecco allora che il palazzo reale rimanda, essendo invisibile perché sotterraneo, a una dimora troglodita, in cui si entra per lapertura di una grotta. Lambiente naturale è un rilievo di terra calcinata e gradinata, al culmine del quale sorgono i resti intricati di un grande albero rinsecchito. Lassù è posto laltare e il punto di vedetta e di richiamo. La Città-regno di Tebe è dunque concentrata attorno alla spelonca dei caprai (e contadini) che sbocca su uno stazzo indegno duna vera agorà. Scenografia di originale risalto compositivo e visivo. I costumi però, imitano i vestiti comuni degli abitanti indigeni senza particolare contrassegni storici.
Nicola Pannelli(Edipo) ed Eros Pagni (Coro) (Foto M. Norberth)
A sipario già aperto, il Prologo si anima con la voce del Coro (Eros Pagni), che la ritma su un tamburo e a tratti la «canta» o la fraseggia su note orientaleggianti della musica, davvero creativa, di Andrea Nicolini. È sonora e non coreografica, la soluzione delluso del Coro, rispetto allenigma dellesecuzione antica. La sequenza degli eventi è canonica e sa creare suspence attorno alle prime scoperte dellinchiesta aperta da Edipo, seguita alle indicazioni delloracolo di Apollo, che ha recato Creonte (un Aldo Ottobrino di netta e precisa dizione). Chiesto consiglio a Tiresia (Federico Vanni è il medium bendato, ispirato e inflessibile), ne segue unaltalena di notizie contrastanti, fino allintimazione di colpa dellindovino al reo ignorante. Lansia di Edipo passa allangoscia, mentre leroe tanto più simpelaga quanto più insegue la verità. Allora Nicola Pannelli impiega per Edipo la dizione forzata di un registro alterato; una pronuncia stridente e arrochita quando nellintensificare la drammatizzazione, propone un espressionismo grottesco e ridondante, per levidente oltranza della situazione. Poi, invaso dal dolore, muterà la rabbia e il rancore in contemplazione della propria miseria. La comparsa di Giocasta (Federica Granata) presenta una poco nobile regina, piuttosto una sorella, più appesantita e goffa, della sua Serva. Lattrice resta sempre come oppressa, svuotata, anche quando intende consolare Edipo. Tra i due prevale il rapporto tra madre e figlio (la natura riprende il sopravvento?) e sembra sparire quello coniugale. La dimensione psicoanalitica, in secondordine per Sciaccaluga, riaffiora nellimmagine in cui Edipo regredisce in posizione fetale e si ritira nella cavità protettiva della casa-caverna. Giocasta né trasale né precipita visibilmente ed emotivamente nella disperazione che la porta al suicidio. Dopo, protagonista testimone e narratrice, è la Serva (Orietta Notari, sostitutiva del Nunzio), che offre una stupefacente incarnazione della confusione del dolore e orrore alla scoperta della regina impiccata. Un esempio luminoso di resa di unesperienza tra il delirio onirico, la rimozione e laderenza alla crudeltà del fatto.
Eros Pagni e Nicola Pannelli (Foto M. Norberth)
Imboccata la via delle rivelazioni progressive, in bilico fra lillusione dellinnocenza salvifica e gli accertamenti funesti, il dramma si fa più corale, più rapido nei suoi adempimenti fatali, per lintervento degli altri testimoni, il Messaggero di Corinto (Massimo Cagnina, ignaro della portata del suo ruolo) e lo Schiavo di Laio (un Roberto Alighieri umile e costernato). Nel preludio al culmine della tragedia, luscita di Edipo, brancolante cieco (e zoppicante, per le pregresse lesioni) è segnata delle sue risate allunisono col gong con cui richiama lattenzione su di sé colpevole. E il Coro sancisce la sua condanna, comprendendola nel destino di dolore costante e totale per tutti gli uomini. La voce di Eros Pagni ha la monotonia o la scansione a rap, dallinizio problematico sulla vicenda, fino allultimo suo giudizio, obiettivo e irrevocabile. Savvera la «fatalità greca come conflitto che storicamente non può avere soluzioni», secondo Sanguineti. La scelta dellinterprete unico per il complesso corale (nella riduzione, in sineddoche, della parte per il tutto), risulta esteticamente efficace. In questo Teatro delle Idee, a dirla con Antoine Vitez, i personaggi non hanno sangue e mente propri, ma rivestono sembianti di entità (se non allegorie) eterne e universali. Oltre le ambiguità residue, la messa in scena è molto interessante e suggestiva e conforta lintento del regista di rendere il suo lavoro ben fruibile dalle diverse sensibilità del potenziale pubblico contemporaneo.
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