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Agli albori dell'intelligenza umana

di Gianni Poli
  Edipo tiranno
Data di pubblicazione su web 12/11/2012  

 

I problemi della scelta di un testo classico come Edipo e del modo di rappresentalo, si ripresentano anche in codesta edizione del Teatro Stabile di Genova, diretta da Marco Sciaccaluga. Stavolta è la traduzione di Edoardo Sanguineti a determinare la lettura e l’interpretazione dell’opera di Sofocle (come lo fu nel 1980 per la regia di Benno Besson). La complessità dell’opera ha richiesto impegno e rigore particolari per la realizzazione odierna. Certo, l’effetto del primo impatto col linguaggio usato dai personaggi attuali, è di stupore e curiosità. La verifica della stranezza si ha immediatamente nel pubblico più giovane che, alla «prima», dimostra come le dislocazioni sintattiche e le irregolarità grammaticali siano percepite significative. Il sorriso che suscita l’insolito parlato è sintomo di sorpresa per l’allusione a una realtà più profonda. Ciò che nell’espressione in lingua corrente sarebbe sanzionato come erroneo, è qui ostentato quale connotazione linguistica dell’invenzione esegetica. Sanguineti, autore secondo di Edipo tiranno, impone un calco italiano che del verso d’origine mantenga le slogature e le sincopi ritmiche (dove tiranno è epiteto funzionale e non attributo del sovrano) e che inoltre denoti il mondo rappresentato come arcaico e primordiale. È la discutibile prepotenza che può rivelarsi feconda e che il regista assimila e fa propria, trasmettendola a una Compagnia dalla dedizione e collaborazione convinte.

 


Una scena d'insieme dello spettacolo (Foto M. Norberth)

 

Lo spettacolo, analizzato nelle sue componenti visive e simboliche; della recitazione in rapporto appunto ai vincoli testuali, offre a prima impressione la visione d’una storia ambientata in un’epoca quasi preistorica, in cui il campione umano e sociale si trovi allo stadio infantile dell’apprendistato, guidato alla consapevolezza esistenziale da una inappagabile curiosità. Edipo analogo a Prometeo, insomma, portatore della passione per la conoscenza, col risultato che il suo fuoco doni la sapienza rischiosa del confondersi di bene e male nell’unicità della persona.

 

Ecco allora che il palazzo reale rimanda, essendo invisibile perché sotterraneo, a una dimora troglodita, in cui si entra per l’apertura di una grotta. L’ambiente naturale è un rilievo di terra calcinata e gradinata, al culmine del quale sorgono i resti intricati di un grande albero rinsecchito. Lassù è posto l’altare e il punto di vedetta e di richiamo. La Città-regno di Tebe è dunque concentrata attorno alla spelonca dei caprai (e contadini) che sbocca su uno stazzo indegno d’una vera agorà. Scenografia di originale risalto compositivo e visivo. I costumi però, imitano i vestiti comuni degli abitanti indigeni senza particolare contrassegni storici.

 


Nicola Pannelli(Edipo) ed Eros Pagni (Coro) (Foto M. Norberth)

 

A sipario già aperto, il Prologo si anima con la voce del Coro (Eros Pagni), che la ritma su un  tamburo e a tratti la «canta» o la fraseggia su note orientaleggianti della musica, davvero creativa, di Andrea Nicolini. È sonora e non coreografica, la soluzione dell’uso del Coro, rispetto all’enigma dell’esecuzione antica. La sequenza degli eventi è canonica e sa creare suspence attorno alle prime scoperte dell’inchiesta aperta da Edipo, seguita alle indicazioni dell’oracolo di Apollo, che ha recato Creonte (un Aldo Ottobrino  di netta e precisa dizione). Chiesto consiglio a Tiresia (Federico Vanni è il medium bendato, ispirato e inflessibile), ne segue un’altalena di notizie contrastanti, fino all’intimazione di colpa dell’indovino al reo ignorante. L’ansia di Edipo passa all’angoscia, mentre l’eroe tanto più s’impelaga quanto più insegue la verità. Allora Nicola Pannelli impiega per Edipo la dizione forzata di un registro alterato; una pronuncia stridente e arrochita quando nell’intensificare la drammatizzazione, propone un espressionismo grottesco e ridondante, per l’evidente oltranza della situazione. Poi, invaso dal dolore, muterà la rabbia e il rancore in contemplazione della propria miseria. La comparsa di Giocasta (Federica Granata) presenta una poco nobile regina, piuttosto una sorella, più appesantita e goffa, della sua Serva. L’attrice resta sempre come oppressa, svuotata, anche quando intende consolare Edipo. Tra i due prevale il rapporto tra madre e figlio (la natura riprende il sopravvento?) e sembra sparire quello coniugale. La dimensione psicoanalitica, in second’ordine per Sciaccaluga, riaffiora nell’immagine  in cui Edipo regredisce in posizione fetale e si ritira nella cavità protettiva della casa-caverna. Giocasta né trasale né precipita visibilmente ed emotivamente nella disperazione che la porta al suicidio. Dopo, protagonista testimone e narratrice, è la Serva (Orietta Notari, sostitutiva del Nunzio), che offre una stupefacente incarnazione della confusione del dolore e orrore alla scoperta della regina impiccata. Un esempio luminoso di resa di un’esperienza tra il delirio onirico, la rimozione e l’aderenza alla crudeltà del fatto.
 


Eros Pagni e Nicola Pannelli (Foto M. Norberth)

        

Imboccata la via delle rivelazioni progressive, in bilico fra l’illusione dell’innocenza salvifica e gli accertamenti funesti, il dramma si fa più corale, più rapido nei suoi adempimenti fatali, per l’intervento degli altri testimoni, il Messaggero di Corinto (Massimo Cagnina, ignaro della portata del suo ruolo) e lo Schiavo di Laio (un Roberto Alighieri umile e costernato). Nel preludio al culmine della tragedia, l’uscita di Edipo, brancolante cieco (e zoppicante, per le pregresse lesioni) è segnata delle sue risate all’unisono col gong con cui richiama l’attenzione su di sé colpevole. E il Coro sancisce la sua condanna, comprendendola nel destino di dolore costante e totale per tutti gli uomini. La voce di Eros Pagni ha la monotonia o la scansione a rap, dall’inizio problematico sulla vicenda, fino all’ultimo suo giudizio, obiettivo e irrevocabile. S’avvera la «fatalità greca come conflitto che storicamente non può avere soluzioni», secondo Sanguineti. La scelta dell’interprete unico per il complesso corale (nella riduzione, in sineddoche, della parte per il tutto), risulta esteticamente efficace. In questo Teatro delle Idee, a dirla con Antoine Vitez, i personaggi non hanno sangue e mente propri, ma rivestono sembianti di entità (se non allegorie) eterne e universali. Oltre le ambiguità residue, la messa in scena è molto interessante e suggestiva e conforta l’intento del regista di rendere il suo lavoro ben fruibile dalle diverse sensibilità del potenziale pubblico contemporaneo.



Edipo tiranno
cast cast & credits
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

(Foto M. Norberth)


 
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