Luciano (Aniello Arena) lavora serenamente nella sua pescheria in un quartiere popolare di Napoli e con la moglie Maria (Loredana Simioli) gestisce un piccolo giro di truffe, per poter condurre una vita non agiata, ma tutto sommato serena. Finché non arriva loccasione di una vita – i provini per il reality show Grande Fratello – a togliere la pace a lui e alla sua famiglia.
Con Reality, Matteo Garrone si conferma un talento registico di spicco nel panorama nazionale. Pur cimentandosi in una vicenda ben diversa da quella di Gomorra (2008), i protagonisti sono in fondo gli stessi: i personaggi dellodierna Italia popolare – quella del Sud, nella fattispecie - che un po per ingenuità, un po per fame e un po per pigrizia, finiscono vittime dei centri di potere alternativi a quelli di uno Stato che sembra essersi dimenticato di loro. Così, se nello scorso film era la Camorra a fornire ai protagonisti unillusoria possibilità di riscatto, qui è la televisione, con la sua mitologia di “divetti” e “starlettine” a buon mercato. Il film mette in scena lepopea dolce-amara di un piccolo “circo”, solo in apparenza di adorabili freak – Luciano, la sua famiglia e il microcosmo del quartiere – che poi a ben guardare non sono altro che lo specchio deformante degli italiani di oggi, vizi e virtù, tratteggiando così una sorta di rinnovato ritratto monicellinano dei “mostri”, ai tempi dei reality show.
Piaccia o no, attraverso la garbata caricatura, emerge il sardonico profilo di un Paese che, pur cambiando i governi e le tecnologie, in fondo rimane sempre lo stesso, almeno nella sua (dis)umanità.
Costruito come una sorta di fiaba per bambini, con unintroduzione a suo modo onirica e un finale altrettanto rarefatto e surreale, Reality è prima di tutto girato magnificamente. Ad “aprirlo” è un lungo piano sequenza che carrella al tramonto sulla skyline cittadina, fino a seguire in plongée una carrozza da Cenerentola, dalla quale escono sposini esagerati come la villa da matrimoni in cui si festeggiano contemporaneamente coppie diverse, a suon dei «never give up» dellultimo divo uscito dalla casa del GF. A chiuderlo è una splendida inquadratura – di nuovo in plongée, descrivendo così una vera e propria “cornice” narrativa – che zooma indietro fino al campo lunghissimo, in cui le luci abbaglianti della casa del reality non sono che un puntino luminoso perso nel buio, tanta è limportanza di un programma televisivo nel disegno delluniverso.
Garrone dà prova di un uso abile e consapevole della macchina da presa, in particolare nella maestria con cui gestisce movimenti di macchina e piani sequenza, al servizio di una narrazione fluida e allo stesso tempo capace di (far) riflettere su di sé. La durata dilatata delle inquadrature, spesso modulate in lunghi movimenti della camera, mentre conferisce scorrevolezza al racconto, veicola infatti al tempo stesso la consapevolezza dello sguardo meccanico, inducendo così lo spettatore alla riflessione sul mezzo stesso e quindi sul ruolo dei media nella dimensione minuta delle singole esistenze. Quello sguardo meccanico che insiste nel prolungare in modo estenuante carrellate e panoramiche o osserva con cura esasperante il volto in primissimo piano di Luciano, è locchio della macchina da presa, certo, ma è anche quello della telecamera del reality, come anche quello delle migliaia di telecamere che registrano il nostro volto ogni giorno, senza che neanche ce ne accorgiamo, dal circuito chiuso di un negozio, al semaforo, al souvenir di un turista. Spesso i primi e primissimi piani sul volto di Luciano giocano con lo sfondo fuori fuoco per tradurre visivamente lo stato di allucinazione mentale del protagonista, ormai vittima di una visione deformata del reale, in cui tutto si è trasformato in “reality” e non conta più lessere, se non nella misura in cui appare. Così persino la carità cristiana diviene un fenomeno da baraccone, un altro numero da circo televisivo, mentre la famiglia va a rotoli.
Il cast si compone di protagonisti e comprimari semplicemente stupendi nei loro tratti caricaturali che la recitazione naturalistica intelligentemente si limita ad assecondare senza sovraccaricare la naturale componente grottesca, di ulteriori sovrastrutture recitative. Su tutti risalta senzaltro il bravissimo Aniello Arena, per il suo Luciano parimenti commovente e indisponente, ma si farebbe un torto a non riconoscere la bravura dellintera “carovana” di interpreti, dai volti più noti - Claudia Gerini, Paola Minaccioni, Ciro Petrone, tra gli altri – ai meno conosciuti, bambini compresi, tutti ugualmente responsabili del proprio insostituibile apporto a un puzzle tanto ricco ed efficace.
Tutto questo mentre le incantevoli musiche di Alexandre Desplat, con il loro felice carillon di melodie fiabesche, ci trasportano nella visione surreale di Luciano, contribuendo alla produzione dellatmosfera agrodolce e trasognata del film. Una colonna sonora godibilissima anche al semplice ascolto, che per la malinconica magia di cui è capace, ricorda vagamente certi indimenticati motivi di Nino Rota, frutto del lungo sodalizio con Fellini – basti pensare a 8 ˝ (1963) e Amarcord (1973), per restare ai più noti.
Garrone ci seduce col fascino decadente di unItalia da baraccone, un po felliniana se vogliamo, che fa sorridere e desta compassione… finché non ci rendiamo conto che il baraccone in fondo è anche la sala in cui siamo seduti, che quei fenomeni siamo un po anche noi – o tanti di noi – e allora è la rabbia a prendere il posto del riso e della tenerezza, nel Paese dei bunga bunga, delle veline e del Grande Fratello. Presi dallo sconforto, facciamo nostro il mantra di Enzo (Raffaele Ferrante), il vip da reality del film e con lui ripetiamo in coro: «never give up!».
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