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Gocce di esistenza in punta di fioretto

di Lorenzo Galletti
  Il principe Amleto
Data di pubblicazione su web 02/10/2012  
                                 

Nessuno può resistere al fascino del principe di Danimarca. Stavolta è il turno di Danio Manfredini, che con il suo Principe Amleto prende di petto la tragedia scespiriana, la smonta e ricompone a proprio gusto sulla scena, dopo averla passata attraverso il fine setaccio di una profonda analisi testuale.

 

La prima nazionale ha luogo nel delizioso teatro dei Rozzi di Siena nell’ambito del Siena Festival. Già prima dell’apertura del sipario, a sala illuminata, accade qualcosa che preannuncia il senso dell’intero spettacolo: sul palcoscenico, da sotto la tenda di pesante velluto azzurro, una mano si affaccia a spargere sul proscenio petali rossi, una macabra macchia di sangue, come si scoprirà presto. La prima scena ci propone infatti una sagoma nera, di spalle, sdraiata a terra: è il corpo di Amleto ferito da Laerte e ucciso dalla punta avvelenata del suo stiletto. Le figure che d’ora in poi si muovono all’interno della scatola nera della scena altro non sono che i protagonisti dell’ultimo “sogno” di Amleto, i personaggi del dramma che egli ripercorre in punto di morte, e di cui ci rende spettatori.

 


Un momento dello spettacolo (© Daniela Neri)

  

Come lo stesso Manfredini afferma, la teatralità del pensiero del principe è materializzata nelle maschere che coprono il volto di tutti gli attori, due volte personaggi, scespiriani prima, “amletici” poi. Per questo, in quanto proiezione di uno sguardo estenuato, di un occhio che si spegne, la trama subisce qualche spostamento dalla linea originale, secondo la volontà, le nostalgie e pure le aspirazioni del principe. È lui il regista dei suoi ultimi momenti di vita, lui che sceglie come rianimare le ultime scene della sua esistenza. Tanto per dare un esempio, l’incontro con l’amato Yorick, il buffone di corte che Shakespeare ci fa conoscere solo nella forma del famoso teschio, avviene per una volta in forma diretta, quando entra in testa alla comitiva dei comici, esibendosi in un numero da giocoliere con fatue palline di tulle.

 

Ma non è tutto: l’intero spettacolo, la ricostruzione della vicenda dal matrimonio tra Claudio e Gertrude fino alla morte di Amleto, pare attraversato dal potente desiderio di redenzione di quest’ultimo. Un primo indizio si trova nell’incontro del principe col fantasma del padre: colpito da un malore, Amleto si accascia a peso morto tra le braccia di Orazio, Marcello e una guardia, come un Gesù deposto sorretto dai suoi cari. Una figura che sarà sostenuta nel finale da un infittirsi di rimandi alla passione di Cristo. Claudio, Gertrude e Ofelia sono trasportati dalle correnti dell’eros, del peccato, della materialità di sentimenti tutti terrestri: i primi due, svelati dalla trasparenza di un telo, sono scoperti nella loro sessualità e costretti a coprirsi come Adamo ed Eva nella Cacciata dal paradiso terrestre di Masaccio; nello stesso telo, mutatosi in fiume, annega Ofelia. Amleto, invece, crocifisso al fianco di Gesù perché comunque peccatore, vince la battaglia con Laerte e, come il ladrone buono, ottiene la Grazia. Lo dimostra l’immagine successiva, quando ancora Orazio lo sostiene come fa Nicodemo con Gesù nella nota scultura michelangiolesca, e lo accompagna alla tomba, lo ripone nella stessa posizione in cui Manfredini ce l’ha presentato in apertura. Ma è la sua anima che Orazio guida, la proiezione onirica di Amleto, che spira rivolto verso di noi, in un efficace controcampo con l’inizio che sancisce perfettamente la conclusione del suo breve ciclo.

 


Una scena dello spettacolo di D. Manfredini (©Daniela Neri)

  

Nessuno aspetta l’arrivo di Fortebraccio, Amleto muore prima e non può mostrarcelo. Solo Orazio-Nicodemo, la guida, dopo aver accompagnato il suo amico alle porte dell’aldilà, toglie la maschera e ci svela ciò che già sapevamo: tutto quello che abbiamo visto appartiene a un altro mondo, immateriale, in limine tra la vita e la morte, il mondo interiore del principe di Danimarca.

 

La regia mette in campo una lettura coerente della tragedia, anche se non del tutto condivisibile; la scelta di un generale rallentamento dei ritmi, poi, se da un lato ricrea efficacemente il clima meditabondo in cui Manfredini incastona la fabula, dall’altro appesantisce la rappresentazione e mette a dura prova l’attenzione dello spettatore. Va reso ad ogni modo merito agli interpreti (oltre al già citato Manfredini, Guido Burzio, Cristian Conti, Vincenzo Del Prete, Angelo Laurino, Mauro Milanese, Giuseppe Semeraro) chiamati a misurarsi con un impegno di per sé non semplice e per di più complicato dai limiti imposti dalle maschere. Uno spettacolo non immediatamente leggibile che è stato accolto comunque con entusiasmo da un pubblico giovane ed appassionato.

 

 

                                                                                          

Il principe Amleto
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