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Il rosso e il blu… sono sbiaditi!

di Elisa Uffreduzzi
  Il rosso e il blu
Data di pubblicazione su web 29/09/2012  

Di solito i film sulla scuola si attestano sullo standard di commedie più o meno divertenti, dense di luoghi comuni e capaci di strappare qualche lacrima. Il rosso e il blu di Giuseppe Piccioni non fa eccezione. Sul totale di un edificio scolastico un po’ decadente, studenti che si affollano all’entrata e la voce over del cinico professor Fiorito (Roberto Herlitzka) che ci introduce nella realtà di una scuola superiore come tante, per guidarci lungo un breve tratto di strada, quello che da un imprecisato momento dell’anno scolastico, conduce la IV F all’ultimo giorno di scuola e agli scrutini finali.  Tra i protagonisti di questa tranche di vita scolastica troviamo la preside Giuliana (Margherita Buy), apparentemente distaccata, in  realtà sensibile e materna; il professor Prezioso (Riccardo Scamarcio), appassionato supplente alle prime armi e gli studenti, certo, ciascuno alle prese con le difficoltà della propria adolescenza. C’è la ragazza difficile che ha perso la madre e ha il padre disoccupato; c’è il figlio di immigrati rumeni che cerca il riscatto nello studio, ma poi si fa traviare dalla fidanzatina con manie suicide/omicide; c’è la secchiona del primo banco gelosa delle proprie penne; l’alunno scolasticamente disastroso, ma simpatico e c’è l’ex-alunna innamorata dell’anziano professore, ormai l’ombra dell’insegnante entusiasta che fu.


 



 

Tratto dal romanzo omonimo di Marco Lodoli, il film pecca di insistere su cliché fin troppo consumati, senza peraltro neanche affrontarli in modo nuovo. Noiosa e incolore – a dispetto del titolo – la trama si trascina fino al finale sospeso, costruendosi per bozzetti e tessendo le fila di uno spaccato di vita che lascia la sensazione di rimanere solo in superficie. Già dal breve sunto del plot qui proposto è evidente il ricorso a schemi e personaggi stereotipati, che non disattendono minimamente le aspettative del pubblico. D’accordo, si dirà che non bisogna a tutti costi dire qualcosa di nuovo per fare un buon film, ma per cortesia che almeno nuove siano le modalità narrative. La lenta disillusione del Prof. Prezioso che va di pari passo col repertino ritorno di fiamma – per la scuola e per la vita – del consumato Prof. Fiorito, è già di per sé un chiasmo prevedibile, che affonda completamente proprio quando vorrebbe disattendere le attese del pubblico, allorché cioè il Prof. Prezioso in visita alla “ studentessa difficile”, Angela Mordini (Silvia D'Amico), scopre la verità sulla ragazza. Che era stata sincera, che i problemi ce li aveva veramente e che non era semplicemente menefreghista e indolente come egli per un attimo aveva creduto, sollecitato dal resto della classe e dallo scettico Prof. Fiorito. Peccato, perché per un attimo Piccioni ce l’aveva quasi fatta a dire qualcosa di nuovo in un film sulla scuola, ammettendo per una volta che gli studenti semplicemente svogliati esistono e i professori negligenti pure. E invece l’ondata di buonismo finale, nell’urgenza di salvare tutto e tutti, cambia le carte in tavola e santifica la sfortunata Angela Mordini. Rimane il prof. Prezioso, capro espiatorio del film, che paga il fio dell’aver perso la speranza, la fiducia e la passione, col prezzo del rimorso. E va bene, almeno così un po’ di credibilità è salvata in extremis, ma quanto più credibile sarebbe stata la trama se il film fosse finito dieci minuti prima. Salva un’opera tanto frammentaria e faticosa dalla catastrofe totale, la recitazione davvero convincente sia dei protagonisti che dei comprimari: se la Buy, Scamarcio ed Herlitzka si confermano gli ottimi interpreti che conosciamo, accanto a loro si conquistano egregiamente il proprio spazio Silvia D'Amico e Davide Giordano (che interpreta l’alunno psicolabile Enrico Brugnoli), per citarne due che si distinguono particolarmente.


 



 

La regia pulita e gradevole presenta qualche guizzo d’ingegno, come all’inizio,  quando un’inquadratura fissa sui volti degli studenti accalcati all’entrata di scuola, ce li presenta mediante lo sguardo in macchina, subito dopo negato allorché di colpo si immergono nel loro abituale chiacchiericcio pre-campanella. Eppure questo non basta.

Vengono in mente allora certi paragoni, con altri essays sulla scuola, più riusciti e senz’altro più incisivi: basti pensare a La scuola di Daniele Luchetti (1995), che non a caso fu accompagnato da un discreto successo, nonostante fosse anche quello carico della sua buona dose di stereotipi. Ma senza andare tanto lontano nel tempo, il più recente Detachment (Tony Kaye, 2011) – pur non scevro da momentanee cadute di stile - rivela una variazione sul tema “scuola”  molto efficace, scegliendo modalità narrative (l’alternanza video-intervista simulata/linea narrativa convenzionale) più originali e una cifra intimistica che con pochi tratti rende il pubblico partecipe dei drammi sullo schermo. Il contesto americano è diverso, certo, ma i motivi di fondo sono gli stessi: i ragazzi difficili, l’istruzione come riscatto e possibilità, l’insegnamento in continua lotta con la sfiducia e il cinismo. A fare la differenza è il modo di raccontarli.




Il rosso e il blu
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