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Lo Zio Vanja 3D

di Federica Mazzocchi
  Zio Vanja
Data di pubblicazione su web 28/09/2012  

Si è da poco conclusa una delle migliori edizioni di Teatro a Corte, il festival estivo collegato al TPE – Teatro Piemonte Europa entrambi diretti da Beppe Navello circondato dalla sua ottima squadra, e fra le varie proposte ha brillato un piccolo, stupefacente spettacolo che sarà nuovamente visibile questo autunno. Parlo dello Zio Vanja adattato e diretto da Emiliano Bronzino  per cinque attori e prodotto appunto dal TPE che ha deciso di rischiare, come ha confidato il suo direttore, su questo inconsueto “spettacolo da camera”. Rischio calcolato, naturalmente, sia per il fiuto di Navello sia per il talento di Bronzino (formatosi con Luca Ronconi), capace di immettere nuova linfa nel panorama piuttosto spento del nostro teatro di prosa.

Quello di Bronzino è un tipico spettacolo da teatro stabile nel senso alto e nobile del termine. Fa capire a chi non ne sa nulla che cos’è il capolavoro di Čechov e ugualmente fa vedere nuovi percorsi a chi lo conosce bene. Muovendosi tra divulgazione e ricerca, tra vocazione popolare e desiderio di sperimentare, è uno spettacolo in tutto e per tutto di regia, anzi potremmo dire di neo-regia visto che sceglie un modo di fare teatro da molti ritenuto del tutto superato e ragione di notevole imbarazzo anche solo nominarlo.

 

F. Pieri, I. Alovisio, Foto di
Foto di Lorenzo Passoni

Invece Bronzino fa regia volentieri, e con autentico spirito anticonformista rispetto ai linguaggi inutilmente pomposi o finto trasgressivi di troppo teatro in circolazione. Non punta sulla “trovata”, non blocca lo spettacolo in una camicia di forza ideologico/interpretativa obbligando tutti a estenuanti tour de force. Con semplicità disarmante trova l’essenziale. Offre all’attore un tracciato sicuro entro cui giocare il suo gioco e crea una trama di relazioni con cui legare attori e pubblico. Bronzino costruisce per lo spettatore un’avventura percettiva basata sull’intimità con l’attore. E se l’efficacia del primo impatto è data dall’essere tutti nello stesso spazio, vicinissimi, con le lunghe gonne di Elena e Sonja che ci sfiorano, la sapienza dello spettacolo è di trasformare la contiguità (dei corpi) in condivisione (dei destini e delle ragioni del personaggio).

Per questa tessitura di complicità Bronzino ha in primo luogo un’idea forte di spazio scenico  (sviluppata dallo scenografo Francesco Fassone) il cui elemento peculiare è l’inclusione. Lo spettacolo accoglie lo spettatore al suo interno, lo ospita, lo circonda. Ci troviamo a pochi passi dagli abbracci fra Astrov e Elena, dalla tortura solitaria di Vanja, dagli inutili colpi di pistola sparati contro il professore, dalla disperazione finale di Sonja e dello zio. Non più davanti al palcoscenico, il pubblico è dentro il salotto insieme agli attori, è dentro la storia. L’effetto 3D scaturisce da questa immersione nello spazio scenico che si sostituisce all’atto di contemplare il quadro. Abitare il loro spazio fisico è abitare anche il loro spazio mentale.

Foto di Lorenzo Passoni
Foto di Lorenzo Passoni

Com’è questo spazio che ci accoglie? È un involucro caldo e claustrofobico. È un nido, un rifugio e una prigione, una gabbia. Lo spettatore entra in un salotto rustico con l’aria delle vecchie stampe ottocentesche però realizzato con rami grigi che schematicamente delimitano le pareti e il basso soffitto. Ci troviamo appunto all’interno di una grande gabbia di fattura un po’ rozza, come in un’artigianale trappola per uccelli, e prendiamo posto su panche ai tre lati della scena. Senza alcuna pesantezza di segno arriva fluidamente il senso di quell’intreccio di rami che è tante cose insieme: i boschi amati da Astrov, uno spazio allusivo per ambientare “scene dalla  vita di campagna” come sottotitolava Cechov, la trappola del tempo e dei rapporti che avviluppa i personaggi nelle proprie disperazioni. Il salotto fatto d’alberi riassume l’esterno e gli interni. La carta geografica dell’Africa è già lì sopra il sofà, e non importa che non ci siano il giardino,  l’altalena o la camera di Vanja.

Dietro il salotto si intravede un piccolo corridoio che allude alle ventisei stanze del resto della casa.  Quel nido/gabbia è anche un posto dove ci si perde, è “un labirinto” borbotta il professor Serebrjakov. In questo altrove si ambientano scene importanti che ascoltiamo ma non vediamo (per esempio, tutto l’inizio del II atto con le lagne del professore sulle sue malattie e le repliche estenuate della moglie Elena). In questi casi la regia di Bronzino è tridimensionale anche in un altro senso, fa vedere della scena non la faccia principale ma il retro. In altre parole, sposta il dialogo off stage e “inquadra” un personaggio in quel momento non previsto in scena, lo  segue, ne immagina i gesti. Così mentre Serebrjakov bercia contro la figlia Sonja (“Ma che me ne faccio del tuo Astrov! Quello ne sa di medicina come io di astronomia!”, II atto) in salotto vediamo aggirarsi e bere e sbronzarsi il dottore fatto chiamare per niente. Lo spazio è usato tutto, gli attori agiscono ora davanti ora alle spalle del pubblico che, collocato ai lati e frontalmente, conquista traiettorie di sguardo non previste, sbilenche, trasversali. Nel mio caso, ho seguito le schermaglie d’amore del III atto guardando la schiena dell’altissimo Astrov che impallava Elena senza che la scena perdesse un briciolo della sua forza.

Foto di Lorenzo Passoni
Foto di Lorenzo Passoni

Zio Vanja  ha avuto splendide traduzioni italiane. Il regista sceglie quella di Guerrieri con tutto il suo strascico di memorie viscontiane, ma fa sua anche la lezione di Angelo Maria Ripellino e quando sarà ora di parlare del finale dirò perché. Ho sentito qualche mugugno sull’adattamento che taglia tutti i personaggi secondari e cesella solo i cinque principali mentre a me non è dispiaciuto affatto. (In certi casi, i tagli realizzano percorsi di senso perfettamente allineati con il testo. Prendiamo per esempio il grido “Mamma!” di Vanja dopo che la pistola ha fatto cilecca [atto III]. Bronzino taglia il personaggio della madre ma appunto non taglia il grido. Il fatto che non ci sia nessuna madre non suona strano perché quella è un’esclamazione normale, automatica. Però chi conosce il testo sa quale mostro sia Marja Vasilevna, autentico esemplare di non-madre, indifferente al dolore del figlio Vanja e sempre dalla parte del professore. E il taglio e il grido all’assente acquistano così nuove risonanze.) I cinque attori sono Graziano Piazza (Serebrjakov), Fiorenza Pieri (Elena), Maria Alberta Navello (Sonja), Lorenzo Gleijeses (Vanja), Ivan Alovisio (Astrov). Formano una compagnia molto coesa, dal lavoro scenico fluidissimo, sempre in relazione reciproca. Lo spettacolo si misura con quel doppio registro drammaticità/comicità che era il cruccio di Cechov, e si ride, sinceramente, pur in un orizzonte di infelicità e perdite. Si spara, si soffre, si impreca, il finale è atroce, ma sempre restando con tutte e due i piedi nella commedia. Bronzino scatena tutte le opportunità comiche del testo e sceglie di distinguere molto fisicamente i due amici Astrov e Vanja (in entrambi i casi il precedente è Visconti con la coppia Mastroianni/Stoppa). L’Astrov di  Alovisio  è possente, erotico eppure buffo, “maniaco” dice di sé il personaggio, così che finalmente trovano pieno senso appellativi un po’ strampalati tipo “bella faina morbida…” rivolto a Elena (III atto). Il Vanja di Glejeses è l’altra faccia della luna. Ispido, spiritato, spelacchiato come un gatto randagio, segaligno. Bellissimo il monologo del II atto che si conclude in posizione fetale, il lungo smarrimento pre-sparatoria (atto III), ma anche tanti piccoli dettagli come nascondersi sotto una coperta alla maniera dei bambini per sfuggire ad Astrov (inizio IV atto). Come dicevo, sono scene condotte sul filo del rasoio comico/drammatico con maestria. Diversamente però dall’illustre precedente viscontiano Bronzino non immagina due personaggi impantanati nella mezza età. Li vede ancora giovani, due amici pronti a ubriacarsi insieme, a scherzare, a gettarsi a terra e picchiarsi se è il caso, e questa scelta anagrafica rende il finale ancora più amaro, perché “la lunga fila di giorni…” di cui parla la nipote Sonja si prospetta davvero lunghissima.

Foto di Lorenzo Passoni
Foto di Lorenzo Passoni

Molto ben studiata anche la coppia “aliena” Serebrjakov e Elena, piovuti dalla città a sconvolgere la routine casalinga. Il professore di Germano Piazza, fatuo, pomposo, divertentissimo intellettuale inutile, è il  grand’uomo che di fronte alla pistola scappa sotto il tavolo. Fiorenza Pieri, del tutto in parte perché giovane e bella per davvero, riesce nell’impresa non proprio semplicissima di recitare la donna che tutti amano. E conferisce alla sua Elena degli strani retrogusti, degli aloni di bizzarria molto interessanti, come un certo modo di muovere le mani, un certo modo di esasperarsi per la noia del posto. Cechov non ha scritto un personaggio stupido (se mai un personaggio debole) e la Pieri lo fa capire molto bene. Dove esagera, o dove esagera il suo regista, è nel volare fra le braccia di Astrov per dirgli addio ma con un tale balzo che più che presa dal desiderio sembra stia facendo ginnastica (IV atto). Le  qualità di Maria Alberto Navello aspettavano il personaggio giusto per uscire definitivamente allo scoperto e Sonja è l’incontro di svolta, quello che conferma il talento. La zitellina infelicemente innamorata di Astrov ha l’onore/onere di un monologo finale lungo, difficile, celeberrimo. Rina Morelli, via Visconti, aderiva completamente al significato letterale. Il suo “io ci credo”  (di cui resta una registrazione) è un capolavoro di volontà persuasiva. Ci metteva l’anima, piangeva, sussurrava, gridava. Ma l’altra lezione famosa su questo finale è quella di Ripellino, straordinariamente insidiosa e obliqua. Traduce alla lettera ma sollecita a non prenderlo sul serio. Per Ripellino si tratta né più né meno di un “fervorino tombale” di cui Cechov era ovviamente del tutto consapevole. La Sonja della Navello direi che segue questa seconda strada. E si carica di rabbia repressa. Il suo monologo non è un’invocazione, è un’invettiva. Seduta al tavolo con il quaderno dei conti prende a pasticciare i fogli, a cancellare furiosamente, a sputare quasi le battute. Tutto il suo discorso è una favola cui nessuno crede, e il “Riposeremo…” sibila nell’aria finché sulla scena cala il buio. 

 
 

Zio Vanja
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