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Un saggio sulla morte

di Elisa Uffreduzzi
  Leones
Data di pubblicazione su web 05/09/2012  

 

Cinque giovani amici vagabondano disorientati in un bosco; sono loro i leoni evocati dal titolo. Attraverso una narrazione rarefatta, dalla lentezza estenuante, a poco a poco e disordinatamente scopriamo che stanno cercando una casa e forse si trovano lì per una scampagnata. Poi scopriamo che c’è stato un incidente, intuíto e mai chiaramente svelato, e forse qualcuno è morto. S’insinua allora l’atroce dubbio di una verità raccapricciante. Dunque ricominciamo, coi tasselli raccolti finora: cinque amici fanno una scampagnata, forse uno di loro è morto ed essi continuano la loro gita estiva come nulla fosse, o quasi. Con l’indifferenza dettata da un istinto di sopravvivenza animale, continuano annoiati la loro gita. La macchina da presa li bracca, muovendosi lentamente eppure senza sosta attraverso i rami e scrutandoli in modo da farci sentire la sua presenza inequivocabilmente, assurgendo così allo status di protagonista essa stessa, più dei personaggi che inquadra. In questo modo mentre indaga lo spazio circostante alla ricerca dei protagonisti, l’obiettivo ci rivela il paesaggio e con esso la Natura. Annoiati, nauseati dalla vita, tristi senza motivo e incapaci di risolversi a fare alcunché si punzecchiano a vicenda, si perdono in inutili elucubrazioni mentali sul niente, si lasciano vivere.

 


 

«Leones è un saggio sulla morte», nelle parole della stessa regista Jazmín López, qui al suo esordio nel lungometraggio cinematografico. In effetti di vitale le esistenze di questi cinque amici sembrano non avere proprio niente e poi qualcuno è morto e qualcun altro, sopraffatto dal dolore, forse, si toglierà la vita. Il film è volutamente criptico e nonostante sia di digestione faticosa, costituisce una proposta piuttosto interessante, tra quelle presentate al festival nella sezione “Orizzonti”, proprio per lo svolgimento del plot, articolato come una sorta di puzzle, i cui pezzi affiorano in modo del tutto estemporaneo, e neanche tutti. Registicamente l’autrice rischia di rimanere danneggiata da un citazionismo sovrabbondante e perciò vuoto esercizio di stile, che ci auguriamo non si tramuti in maniera. Difatti la sequenza in cui quattro dei cinque amici fingono di giocare con una palla che non c’è, rievoca la partita a tennis mimata nel finale di Blow-Up (1966); mentre il riferimento a Michelangelo Antonioni e alla proverbiale incomunicabilità del suo cinema, sembra veicolato anche dalle sterili conversazioni dei personaggi. E ancora: cercano una casa che non c’è (come ne L’avventura, 1960, i protagonisti cercavano Anna e quella ricerca diventava un pretesto per mostrare altro) e uno dei ragazzi ascolta e riascolta compulsivamente la stessa registrazione audio, testimonianza involontaria dell’incidente, alla ricerca di qualcosa che possa essere loro sfuggito (come Thomas in Blow-Up scrutava ossessivamente le stesse fotografie, in cerca di indizi). Le connessioni sembrerebbero fin troppe per essere casuali e troppe in ogni caso. Come eccessivo è il continuo giocare con la messa a fuoco che oltre a risultare un elemento di disturbo, in luogo di comunicare alcunché finisce per divenire fine a se stesso e dunque sterile. Pregevole invece la scelta di risolvere il presunto suicidio nel quadro accecato dalla luce nel finale. Peraltro inquadrature simili, in cui la luce cancella l’immagine fino al bianco, compaiono anche in apertura del film, descrivendo così un cerchio, che è quello della vita, dove il quadro “abbagliato” dalla luce è metafora del nulla, dal quale veniamo e al quale torniamo.




Leones
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