Finisce la seconda guerra mondiale e anche per il marinaio Freddie Quell (Joaquin Phoenix) è tempo di tornare a casa, dalla propria famiglia. Se non fosse che una famiglia non ce lha più – il padre è morto e la madre è stata rinchiusa in un manicomio – e una casa neppure. E allora a Freddie non resta che vivere alla giornata, saltando da un lavoro allaltro, vittima di un carattere irascibile, certo aggravato dai lunghi mesi trascorsi in mare. Finché non incontra Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman), singolare filosofo, pseudo-psicologo e scrittore, che vede in lui la cavia perfetta per i suoi esercizi di autocontrollo. Poco importa che si tratti di un meschino ciarlatano o di un genio assoluto dellanalisi comportamentale col reale intento di salvarlo: a Paul Thomas Anderson interessa far emergere il rapporto affettivo, finanche morboso, che si instaura tra questi due uomini, le cui strade sincrociano, per caso, ancora una volta in nave.
La base di partenza era ottima: un dramma sociale come quello dei reduci di guerra, filtrato attraverso le vicende di un singolo individuo; personaggi sfaccettati; unambientazione storica – quella nellAmerica degli anni ‘50 – magnificamente ricostruita dal felice concorso di fotografia (Mihai Malaimare Jr.), scenografia (Jack Fisk, David Crank) e costumi (Mark Bridges); infine certi vezzi registici per nulla ridondanti. Come linquadratura a poppa, in plongée sulla scia lasciata dalla nave e la sequenza dei festeggiamenti triviali dei marinai sulla spiaggia: immagini che tornano ossessivamente nel corso del film, quali attimi di distensione. Lieti ricordi per lenire i fragili nervi di Freddie – e quelli del pubblico – provato dallennesima crisi, proprio come il suo mentore gli ha insegnato. In questo senso Anderson sembra aver fatto sua la lezione di Lancaster.
A far naufragare in parte il film è la cospicua “fase di stallo” che lo affligge purtroppo per buona parte e che finisce per inficiare anche lefficacia del non-finale, che di per sé non costituirebbe un male. In effetti dallincontro tra i due personaggi principali in poi, la storia gira inutilmente su se stessa. Può darsi, daccordo, che il regista abbia voluto così tradurre visivamente il “circuito chiuso” mentale del marinaio Quell, vittima di se stesso perché incapace di governarsi e perciò destinato a inevitabili ricadute. Tuttavia il messaggio sarebbe stato altrettanto chiaro e anzi ancor più incisivo, se lautore avesse tagliato una buona mezzora di film. Anderson che ci aveva abituato a exploit del calibro di Boogie Nights e Magnolia, per citare due dei suoi titoli più celebri, stavolta delude un po, comportandosi come un cuoco che finisca per sprecare ingredienti di prima scelta.
Tra questi senza dubbio gli attori, a cominciare dai protagonisti. Joaquin Phoenix offre una prova dattore che lo consacra quale interprete maturo, impegnato in un ruolo sopra le righe per costituzione, che pure riesce perfettamente credibile e convincente. Quanto a Philip Seymour Hoffman, si conferma un maestro dei ruoli ambigui e più sottilmente sfumati.
Notevole lapporto della musica (Jonny Greenwood), per la resa di un clima inquietante e angoscioso, mediante lastuta modulazione dei fiati, che definiscono melodie ossessive.
«Se riuscirai a vivere senza nessun padrone – il master del titolo – fammelo sapere e dimmi come ci sei riuscito»: pressappoco così nel finale Lancaster si rivolge al suo inguaribile paziente, che a modo suo gli risponde poco più avanti, durante un amplesso con lennesima ragazza qualunque, sbeffeggiando senza troppa convinzione gli stessi esercizi che gli ha impartito. E torna quellinquadratura in primissimo piano del viso di Freddie sulla spiaggia, sdraiato accanto a una “donna di sabbia”. Così si vive senza un padrone, sembra dire il nostro marinaio, ché se neanche tu sei padrone di te stesso, allora padroni lo saranno gli eventi, come i venti in mare aperto per un veliero senza timone. Se sia libertà o schiavitù, Anderson non lha ancora deciso.
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