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Partitura visiva

di Paolo Patrizi
  Tristan und Isolde
Data di pubblicazione su web 29/08/2012  

L’implicita ammissione d’irrappresentabilità formulata, per paradosso o mania di grandezza, da Wagner sulle sue opere – «Ho inventato l’orchestra invisibile (a proposito del golfo mistico di Bayreuth nascosto agli occhi del pubblico: n.d.r.), ora voglio inventare la scena invisibile» – ha portato negli ultimi decenni a soluzioni assai diverse tra loro, che bene o male hanno reso fertile, nella viva realtà teatrale e non nelle dissertazioni teoriche, il dibattito drammaturgico wagneriano. Chérau e Ronconi ne hanno borghesizzato l’epos, come in un giocattolo smontato per mostrare dall’interno i meccanismi; Nekrosius ha scelto la strada d’una visionarietà metaforica e materica al contempo, basata su segni ancestrali e primordiali; Jean Fabre (in Tannhäuser) e Romeo Castellucci (in Parsifal) hanno tentato di conservare oggetti e presenze scenotecniche, ma reinventandone la forma l’uno mediante la plasticità coreografica, l’altro attraverso installazioni visive tra il postmoderno e l’artigianato di antica scuola; la Fura dels Baus ha circoscritto tutto a un grande videogame, ragguagliando il cosmo wagneriano al pensiero debole di oggi e rendendolo fruibile al grande pubblico come, forse, nessun altro è riuscito a fare. Per ciascuno di loro, però, la ricerca antinaturalistica e l’astrazione scenica hanno rappresentato un dato acquisito: è mancata quell’idea di “teatro totale” capace di evocare, ma pure di descrivere. Non per tornare a un calligrafismo – irrappresentabile, appunto – di cigni e colombe, valchirie e Walhalla, ma per approdare a una «scena invisibile» attraverso un’assoluta evidenza teatrale.

 


 


Tristan und Isolde


 

 

Per uno di quei paradossi che sono la linfa del teatro, da sette anni ciò è possibile grazie a un Tristan und Isolde realizzato da un uomo non di palcoscenico, ma di videoarte: uno spettacolo che ha girato varie città europee e americane (mai arrivato in Italia, nell’ignavia delle nostre direzioni artistiche) e porta la firma di Bill Viola, affiancato però – in qualità di drammaturgo delle videoelaborazioni, prima ancora che di regista in senso stretto – da un teatrante autentico, ancorché sui generis, come Peter Sellars. Il pericolo del troppo e troppo bello – quel «Zu viel!» che attanaglia Tannhäuser – è dietro l’angolo: tra la musica di Wagner e i video di Viola si rischia una sindrome di Stendhal fonovisiva. Ma il continuo fluire delle immagini non entra in collisione con la partitura (la messinscena, al contrario di altre nominalmente più tradizionali, ha il buon gusto di non visualizzare il preludio, lasciando che il Tristan-Akkord parli da solo e i filmati partano dopo il Vorspiel) e lo spettacolo è di quelli in cui regista e artista procedono in sinergia, senza che il primo venga fagocitato dal secondo. A Helsinki poi, dove lo spettacolo è approdato ora in occasione del tradizionale festival estivo, si è ricostituito il sodalizio con il direttore che aveva partecipato alla nascita della produzione: Esa-Pekka Salonen. E se era prevedibile che per l’occasione si convocasse la massima bacchetta finlandese, il suo ritorno ha garantito un’unità musica-immagine difficilmente raggiunta dagli altri direttori che si sono avvicendati in questo Tristano.

 

Quella di Salonen è una lettura “orizzontale”: l’Orchestra Sinfonica della Radio Finlandese tende ad espandersi più che a librarsi (anche se la qualità dei pianissimi è stupenda), e il senso di continuità che dal podio viene impresso al ductus musicale sembra quasi voler eliminare le stanghette dalla partitura. L’ininterrotto scorrere dei filmati trova, dunque, un perfetto corrispettivo sonoro per plasticità e sintonia; ma quando una forza propulsiva si fa improvvisamente strada nelle immagini di Viola (non a caso, nell’ultimo atto, lo schermo diviene verticale) la direzione abbandona quest’esemplare sostegno del suono, in favore della flessibilità. Il climax della trasfigurazione di Isotta – «l’onda de le brezze» che cresce e la invade, come recita l’antica traduzione italiana – viene reso, in video, con un tuffo sottomarino catartico e rigeneratore: Salonen risponde con una flessuosa verticalizzazione fonica e pure l’emissione di Violeta Urmana, che antepone la solidità alla proiezione, qui si trasforma, privilegiando il canto sul fiato piuttosto che sulla “posizione”, in una dialettica tra immagini e orchestra, e tra orchestra e voce, che ha del prodigioso.

 


 


Tristan und Isolde


 

 

Purificatrice, misterica e spirituale – ad alto tasso di erotismo, ma a bassa carica di carnalità – è d’altronde tutta l’architettura visivo-narrativa del regista e del suo videomaker, che incanalano questa leggenda celtica in una sensibilità quasi buddista e new age, non dimenticando che Tristan si presenta a Isolde sotto le mentite spoglie di Tantris. Le immagini di Viola hanno valenza ora descrittiva (il mare, il bosco…) ora metaforica (lo sgorgare d’una massa liquida come filtro d’amore squisitamente fisiologico), ma anche nel primo caso non si tratta di descrizione realistica: il racconto visivo segue il percorso interiore dei personaggi, non quello d’un narratore esterno. Le onde fracassate sugli scogli ci dicono l’ira della protagonista nel suo umiliante viaggio in mare; il fuoco che divampa nel duetto mostra come il punto di vista non sia quello dei due amanti, che reclamano le tenebre, ma di Brangäne, che vorrebbe tener viva la fiaccola per vegliare su loro; e l’unico piano-sequenza, sul paesaggio dell’ultimo atto, durante il canto di Kurwenal rende l’idea del lungo, ansioso osservare del fedele amico di Tristan. Sellars, dal canto suo, riduce gli interventi registici a quelli d’una mise en espace, lavorando però sui personaggi: Brangäne non è un’ancella ma un’amica alla pari, mezza guaritrice e mezza chiromante; Kurwenal – come si conviene al non più verde Jukka Rasilainen – abbandona le vesti del giovane scudiero impulsivo e si trasforma in un vecchio soldato, rude ma raziocinante; Melot viene ricondotto a una tormentata ambiguità tra gelosia, amicizia e senso del dovere che lo sottraggono al cliché del cattivo, come dimostra l’istantanea al termine del secondo atto, che lo coglie disperato sul supposto cadavere di Tristan.

 

Il cast, diviso tra rigogliose voci femminili e avvizzite voci maschili, rischia qualche squilibrio, appianato dall’alto livello tecnico e dalla profonda coscienza artistica di tutti gli interpreti. La Urmana è una protagonista che unisce il meglio del canto alla tedesca e all’italiana, rocciosa nella fonazione aliena da vibrato, ma capace anche d’un suadente – e, all’occorrenza, sarcastico – canto di portamento; semmai si può eccepire che la carnosità del suo registro medio (iniziò la carriera da mezzosoprano) rischia di far apparire fin troppo sopranile il luminoso registro superiore di Michelle De Young, robusta ma musicalissima Brangäne. L’una e l’altra, quando si trovano fuori dall’area del palcoscenico (la struttura del Music Centre di Helsinki consente una mobile dislocazione dei personaggi), tendono un po’ a forzare per ragioni di resa acustica: ma le voci sono così sane e ben emesse che la stabilità del suono non ne scapita. Ben Heppner lotta con l’anagrafe e la natura per onorare fino in fondo – Salonen non applica alcun taglio – i micidiali desiderata canori del protagonista, e vi riesce in virtù di un’estrema compenetrazione interpretativa: nonostante un timbro non sempre a fuoco e qualche limite di volume, il suo canto d’amore più folle e disperato che eroico e passionale resta un momento emozionante. Prossimo alla settantina, Matti Salminen denuncia un’inevitabile vibrato, ma mantiene l’estensione del vero basso profondo e un colore scuro senza cavernosità, oltre a un’assoluta empatia con il personaggio di Marke. Rasilainen, invece, mostra più gli inconvenienti vocali che i pregi del veterano di lungo corso.

 


 

Il tenore Topi Lehtipuu (protagonista del concerto Régne, amour…)

 

Resa lode a Waltteri Torikka (duttile Melot) e al tenorino Tuomas Katajala (un po’ nasale nel canto del marinaio, molto garbato negli interventi del pastore) resta da dire che l’ottima impaginazione del festival ha incastonato, tra la prima e la seconda recita del Tristano, un concerto barocco-contemporaneo intitolato Régne, amour… che rappresenta un efficace pendant all’opera wagneriana in rapporto al tema dell’amore. Tra il Rameau dell’Anacréon (che offre lo spunto per il titolo), dei Paladins e del Dardanus, da un lato, e l’Händel dell’Ode per il giorno di Santa Cecilia, dall’altro, è stata infatti inserita una nuova composizione cameristico-vocale del finlandese Jukka Tiensuu, classe 1948: mago del neobarocco e delle commistioni stilistiche, in Italia ancora da scoprire. Una serata musicale che vuole essere una riflessione sull’amare e il disagio che ne consegue, servita discretamente dalla barocchista Sandrine Piau e ottimamente dal tenore Topi Lehtipuu, assai popolare in Finlandia: soffice nel suono, calibrato nella musicalità e “attore vocale” spiritosissimo.




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