«Ecco
ancor della polvere sulla testa di Marat!» impreca il sanculotto Mathieu,
spolverando il busto del rivoluzionario caduto sotto il coltello di Charlotte
Corday: ed è proprio quella testa la protagonista dellAndrea Chénier andato in scena a Bregenz, titolo prescelto per lannuale
allestimento operistico sul lago di Costanza (è la ripresa duna produzione dellanno
scorso) nellimitabile cornice del palcoscenico galleggiante sopra il Bodensee.
Daltronde Marat fu ucciso nella vasca da bagno, come il quadro di Jacques-Louis David ha impresso in modo
ineludibile nella memoria collettiva; e quellassassinio nellacqua evocato su
un palcoscenico lacustre trova amplificazione teatrale nella messinscena di Keith Warner e dello scenografo David Fielding, che creano una
monumentale struttura dove lelemento portante è la riproduzione,
tridimensionale e infinitamente ingrandita, della testa di Marat come David ce
la tramanda: lasciugamano attorno ai capelli, una maschera dagonia che
trasfigura ma non deforma il volto.
Negli
allestimenti di Bregenz il lago è spesso suggestione sconfinata, ma pure limite
visivo: una griglia che ingabbia la creatività scenografica, creando un
notevole colpo docchio limitato, però, a una trovata iniziale che non
suggerisce grandi sviluppi. Warner e i suoi collaboratori (oltre a Fielding la
costumista Constance Hoffman, la coreografa Lynne Page e il direttore della squadra di acrobati e stuntman Gregg Curtis, tutti decisivi per la riuscita dello spettacolo) danno
vita, invece, a una messinscena cangiante dallinizio alla fine, proprio perché
la location del lago non viene
concepita come sfondo, ma è canalizzata a fini drammaturgici.
Rinunciando
agli intervalli – le due ore dellopera di Giordano
scorrono compatte e ancora più avvincenti – il regista rischia limproprietà, visto
che lazione dello Chénier si dipana
nel corso di cinque anni: ma è proprio questo monoblocco narrativo ad accentuare
il senso del fluire inarrestabile della Storia. Il passaggio da quel prologo
che, di fatto, è il primo quadro (ultimi fuochi dellancien régime) al resto dellopera (vigilia della caduta di
Robespierre) viene reso attraverso unabile liaison
de scène: abatini, nobildonne e rampolli dellaristocrazia vengono
defenestrati dal Terzo Stato – ovvero, nella fattispecie, scaraventati nel lago
– sulle note di Ça ira! mentre, senza
soluzione di continuità, sopraggiungono Mathieu e lIncredibile a proiettarci
in pieno Terrore. E luso di musiche “rivoluzionarie” aggiunte alla partitura
di Giordano tornerà nella scena di raccordo inserita da Warner tra terzo e
quarto quadro: una cantilena di Bersi che restituisce al personaggio il peso di
“seconda donna” concepito da Illica nella
stesura originaria del libretto, e lo risarcisce di quellaria che Giordano non
volle musicare.
A
incombere su tutto è la testa di Marat: nel primo quadro nascosta da un
gigantesco drappo (una sorta di sfera inguainata dove danzatrici e acrobate
mimano le loro aristocratiche pastorellerie), poi occhio spalancato sul Terrore
– impressionante linopinato aprirsi delle pupille – e bocca venata da rivoli
di sangue da cui esce la voce della Gran Madre Francia, che fagocita i propri
figli dandoli in pasto alla Rivoluzione; non a caso sarà dalla bocca di Marat che
emerge la vecchia Madelon, pronta a donare il nipotino alla causa
rivoluzionaria. Il resto è un alternarsi di segni limpidamente simbolici (la
proiezione della penna doca a memento della vena poetica di Chénier),
soluzioni più didascaliche (le vicende narrate in La mamma morta vengono visualizzate nel corso dellaria, facendo
riapparire Bersi e la contessa di Coigny) e momenti altamente spettacolari (il
duello tra Andrea e Gérard, con il primo sostituito, a velocità quasi invisibile,
da uno stuntman che si tuffa nel
lago). Ma soprattutto è approfondita la coralità dellopera: Warner pennella
minuziosamente tutti i ruoli minori – semmai risulta più prevedibile il
ritratto dei tre protagonisti – e soprattutto su Bersi e lIncredibile si apre
una finestra nuova, concepiti luna come rivoluzionaria in pectore già nel primo quadro, laltro come un pipistrello che
vampirizza perseguitati e persecutori.
Anche
Ulf Schirmer, dal podio, propone un Andrea Chénier lontano da luoghi comuni. La particolare situazione
logistica dellorchestra a Bregenz (dove in un normale teatro si troverebbe la
buca qui cè lacqua del lago, direttore e strumentisti sono fuori del campo
visivo dei cantanti) lo induce ad attacchi molto lenti per non mandare i
solisti fuori tempo, con effetti talvolta un po disinnescanti, ma la sapienza
del Giordano orchestratore emerge – grazie anche agli ottimi Wiener Symphoniker – in tutta la sua
ricchezza di articolazione, comè raro ascoltare con direttori e orchestre italiane.
Non perché Schirmer sposi la causa di uno Chénier
antiverista: i profili vocali dei protagonisti, nella sua concertazione, conservano
lenfasi della tradizione italiana. Quelle stesse vocalità, però, vengono
inserite allinterno di una valorizzazione del tessuto armonico e strumentale
che in qualche modo le ridimensiona, dove lappassionato slancio melodico elettrizza
il tracciato musicale, ma non lesaurisce. Nemico
della patria e La mamma morta continuano
oltre il punto dove – di solito – scatta lapplauso, ma la tradizione ha
imposto che la loro ideale conclusione coincida con i rispettivi climax emotivi («tutte le genti amar» e
«io son lamor»): qui lapplauso non parte, e non per demerito degli
interpreti, ma perché è nella logica musicale che il discorso prosegua. E, con
un direttore sensibile, il pubblico lo avverte.
Héctor Sandoval è un protagonista di bel timbro e bella figura, più
piacevole che memorabile nell“Improvviso”, insolitamente composto in una
pagina peroratoria come Sì, fui soldato
e, per contro, un po sopra le righe in Come
un bel dì di maggio. Tatiana Serjan, come Maddalena, si
lascia sfuggire il trapasso dalla fanciulla viziata del primo quadro alla donna
angosciata del resto dellopera, anche perché la sua vocalità – robusta ma non
flessibilissima – si presta soprattutto a questa seconda faccia del
personaggio. È comunque uninterprete di forte drammaticità, efficace nei
duetti con il tenore e nello scontro con il baritono: nella Mamma morta, affrontata sotto un segno passionale
più che allucinato, è invece meno interessante (e lostacolo della cadenza
allottava inferiore viene risolto, sic
et simpliciter, evitandola). John
Lundgren è un fraseggiatore avaro di sfumature, incline a sottolineare più
il lato rude che quello nobile di Gérard, raccomandabile soprattutto per timbro
e volume, che però lamplificazione – indispensabile nello spazio enorme del
palcoscenico sul lago – penalizza.
I
comprimari sono molto duttili sul piano scenico ma alterni vocalmente, anche perché
la cattiva pronuncia italiana di alcuni – lIncredibile di Peter Marsh, lAbate di Christian Drescher – è un handicap
in unopera come questa. Domina, grazie allallargamento del ruolo impresso
dalla regia, la Bersi di Krysty Swann e, sul piano strettamente canoro,
simpone per scioltezza e morbidezza il Roucher di David Stout. La veterana Rosalind
Plowright si fa carico della contessa di Coigny e Madelon: nella prima ha
ancora qualche buona carta da spendere, nella seconda è ottimistico pensare che
un maturo e autorevole soprano – persi gli acuti dopo decenni di carriera – possa
per questo trasformarsi in un contralto. Adrian
Clarke non vanta particolari attrattive: ma landamento spettrale, anziché trionfalistico,
impresso da Schirmer alla “Marsigliese” che Mathieu intona tra i denti prima
della mattanza conclusiva è uno di quei momenti che rendono questo Chénier atipico e memorabile.
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