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La testa della Rivoluzione

di Paolo Patrizi
  Andrea Chénier
Data di pubblicazione su web 24/07/2012  

«Ecco ancor della polvere sulla testa di Marat!» impreca il sanculotto Mathieu, spolverando il busto del rivoluzionario caduto sotto il coltello di Charlotte Corday: ed è proprio quella testa la protagonista dell’Andrea Chénier andato in scena a Bregenz, titolo prescelto per l’annuale allestimento operistico sul lago di Costanza (è la ripresa d’una produzione dell’anno scorso) nell’imitabile cornice del palcoscenico galleggiante sopra il Bodensee. D’altronde Marat fu ucciso nella vasca da bagno, come il quadro di Jacques-Louis David ha impresso in modo ineludibile nella memoria collettiva; e quell’assassinio nell’acqua evocato su un palcoscenico lacustre trova amplificazione teatrale nella messinscena di Keith Warner e dello scenografo David Fielding, che creano una monumentale struttura dove l’elemento portante è la riproduzione, tridimensionale e infinitamente ingrandita, della testa di Marat come David ce la tramanda: l’asciugamano attorno ai capelli, una maschera d’agonia che trasfigura ma non deforma il volto.

Negli allestimenti di Bregenz il lago è spesso suggestione sconfinata, ma pure limite visivo: una griglia che ingabbia la creatività scenografica, creando un notevole colpo d’occhio limitato, però, a una trovata iniziale che non suggerisce grandi sviluppi. Warner e i suoi collaboratori (oltre a Fielding la costumista Constance Hoffman, la coreografa Lynne Page e il direttore della squadra di acrobati e stuntman Gregg Curtis, tutti decisivi per la riuscita dello spettacolo) danno vita, invece, a una messinscena cangiante dall’inizio alla fine, proprio perché la location del lago non viene concepita come sfondo, ma è canalizzata a fini drammaturgici.

Rinunciando agli intervalli – le due ore dell’opera di Giordano scorrono compatte e ancora più avvincenti – il regista rischia l’improprietà, visto che l’azione dello Chénier si dipana nel corso di cinque anni: ma è proprio questo monoblocco narrativo ad accentuare il senso del fluire inarrestabile della Storia. Il passaggio da quel prologo che, di fatto, è il primo quadro (ultimi fuochi dell’ancien régime) al resto dell’opera (vigilia della caduta di Robespierre) viene reso attraverso un’abile liaison de scène: abatini, nobildonne e rampolli dell’aristocrazia vengono defenestrati dal Terzo Stato – ovvero, nella fattispecie, scaraventati nel lago – sulle note di Ça ira! mentre, senza soluzione di continuità, sopraggiungono Mathieu e l’Incredibile a proiettarci in pieno Terrore. E l’uso di musiche “rivoluzionarie” aggiunte alla partitura di Giordano tornerà nella scena di raccordo inserita da Warner tra terzo e quarto quadro: una cantilena di Bersi che restituisce al personaggio il peso di “seconda donna” concepito da Illica nella stesura originaria del libretto, e lo risarcisce di quell’aria che Giordano non volle musicare.

A incombere su tutto è la testa di Marat: nel primo quadro nascosta da un gigantesco drappo (una sorta di sfera inguainata dove danzatrici e acrobate mimano le loro aristocratiche pastorellerie), poi occhio spalancato sul Terrore – impressionante l’inopinato aprirsi delle pupille – e bocca venata da rivoli di sangue da cui esce la voce della Gran Madre Francia, che fagocita i propri figli dandoli in pasto alla Rivoluzione; non a caso sarà dalla bocca di Marat che emerge la vecchia Madelon, pronta a donare il nipotino alla causa rivoluzionaria. Il resto è un alternarsi di segni limpidamente simbolici (la proiezione della penna d’oca a memento della vena poetica di Chénier), soluzioni più didascaliche (le vicende narrate in La mamma morta vengono visualizzate nel corso dell’aria, facendo riapparire Bersi e la contessa di Coigny) e momenti altamente spettacolari (il duello tra Andrea e Gérard, con il primo sostituito, a velocità quasi invisibile, da uno stuntman che si tuffa nel lago). Ma soprattutto è approfondita la coralità dell’opera: Warner pennella minuziosamente tutti i ruoli minori – semmai risulta più prevedibile il ritratto dei tre protagonisti – e soprattutto su Bersi e l’Incredibile si apre una finestra nuova, concepiti l’una come rivoluzionaria in pectore già nel primo quadro, l’altro come un pipistrello che vampirizza perseguitati e persecutori.

Anche Ulf Schirmer, dal podio, propone un Andrea Chénier lontano da luoghi comuni. La particolare situazione logistica dell’orchestra a Bregenz (dove in un normale teatro si troverebbe la buca qui c’è l’acqua del lago, direttore e strumentisti sono fuori del campo visivo dei cantanti) lo induce ad attacchi molto lenti per non mandare i solisti fuori tempo, con effetti talvolta un po’ disinnescanti, ma la sapienza del Giordano orchestratore emerge – grazie anche agli ottimi Wiener Symphoniker – in tutta la sua ricchezza di articolazione, com’è raro ascoltare con direttori e orchestre italiane. Non perché Schirmer sposi la causa di uno Chénier antiverista: i profili vocali dei protagonisti, nella sua concertazione, conservano l’enfasi della tradizione italiana. Quelle stesse vocalità, però, vengono inserite all’interno di una valorizzazione del tessuto armonico e strumentale che in qualche modo le ridimensiona, dove l’appassionato slancio melodico elettrizza il tracciato musicale, ma non l’esaurisce. Nemico della patria e La mamma morta continuano oltre il punto dove – di solito – scatta l’applauso, ma la tradizione ha imposto che la loro ideale conclusione coincida con i rispettivi climax emotivi («tutte le genti amar» e «io son l’amor»): qui l’applauso non parte, e non per demerito degli interpreti, ma perché è nella logica musicale che il discorso prosegua. E, con un direttore sensibile, il pubblico lo avverte.

Héctor Sandoval è un protagonista di bel timbro e bella figura, più piacevole che memorabile nell’“Improvviso”, insolitamente composto in una pagina peroratoria come Sì, fui soldato e, per contro, un po’ sopra le righe in Come un bel dì di maggio. Tatiana Serjan, come Maddalena, si lascia sfuggire il trapasso dalla fanciulla viziata del primo quadro alla donna angosciata del resto dell’opera, anche perché la sua vocalità – robusta ma non flessibilissima – si presta soprattutto a questa seconda faccia del personaggio. È comunque un’interprete di forte drammaticità, efficace nei duetti con il tenore e nello scontro con il baritono: nella Mamma morta, affrontata sotto un segno passionale più che allucinato, è invece meno interessante (e l’ostacolo della cadenza all’ottava inferiore viene risolto, sic et simpliciter, evitandola). John Lundgren è un fraseggiatore avaro di sfumature, incline a sottolineare più il lato rude che quello nobile di Gérard, raccomandabile soprattutto per timbro e volume, che però l’amplificazione – indispensabile nello spazio enorme del palcoscenico sul lago – penalizza. 

I comprimari sono molto duttili sul piano scenico ma alterni vocalmente, anche perché la cattiva pronuncia italiana di alcuni – l’Incredibile di Peter Marsh, l’Abate di Christian Drescher – è un handicap in un’opera come questa. Domina, grazie all’allargamento del ruolo impresso dalla regia, la Bersi di Krysty Swann e, sul piano strettamente canoro, s’impone per scioltezza e morbidezza il Roucher di David Stout. La veterana Rosalind Plowright si fa carico della contessa di Coigny e Madelon: nella prima ha ancora qualche buona carta da spendere, nella seconda è ottimistico pensare che un maturo e autorevole soprano – persi gli acuti dopo decenni di carriera – possa per questo trasformarsi in un contralto. Adrian Clarke non vanta particolari attrattive: ma l’andamento spettrale, anziché trionfalistico, impresso da Schirmer alla “Marsigliese” che Mathieu intona tra i denti prima della mattanza conclusiva è uno di quei momenti che rendono questo Chénier atipico e memorabile.




Andrea Chénier



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