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Happy New Ciampi!

di Roberto Fedi
  Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica
Data di pubblicazione su web 02/01/2003  
Giacomo Leopardi, il più grande intellettuale italiano dopo Dante, sosteneva che "gl'italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi" (Discorso sopra lo stato presente de' costumi degl'Italiani, 1824-26). Inutile dire che aveva ragione. Fra le abitudini che non sono riuscite a divenire costumi, cioè comportamenti nobilitati dall'etica in cui i cittadini si identificano e che condividono, c'è da anni il discorso di fine anno del Presidente della Repubblica. In un modo o nell'altro ci hanno provato tutti, a farlo divenire un costume civile. Sandro Pertini, l'unico di cui ci ricordiamo con simpatia, parlava in tono benevolmente burbero, come un nonno ragguardevole che poteva permettersi anche qualche sciocchezza, tanto la sua figura era comunque superiore - almeno nella comune percezione degli italiani - anche a qualche momentanea gaffe istituzionale. Oscar Luigi Scalfaro più di recente tentò una tonalità familiare - lontanissima dalle sue corde e perciò avvertita come falsa e retorica - , con successo pari allo zero e con una tale incapacità comunicativa da non suscitare nessun rimpianto - neanche in questo. Carlo Azeglio Ciampi, quest'anno al suo quarto messaggio di fine anno, ce l'ha messa tutta, con l'autorevolezza e le capacità che gli vengono da tutti riconosciute, per far rientrare questo appuntamento in un costume, o almeno in una buona consuetudine civile.

Ciampi parla abitualmente dal suo studio al Quirinale, con alle spalle un arazzo cinquecentesco, alla sua destra tre bandiere (quella italiana, quella europea e lo stendardo presidenziale), e tre telecamere che lo riprendono - dal 1999 ha optato per questa soluzione piuttosto che per l'unica telecamera fissa, che rende l'inquadratura sempre uguale, monotona e schiacciata. Il messaggio è registrato: scelta sbagliata, che certo favorisce poco la spontaneità, e che viene avvertita dal cittadino come troppo 'televisiva'. Sempre dal 1999, se non ci inganniamo, sul tavolo alla sua sinistra compare anche un computer, che più che uno strumento di lavoro è chiaramente un 'segno': il Presidente è anziano ma aggiornato, è uno che non sta con le mani in mano, non è uno che ha bisogno di segretari o solerti impiegati. Si capisce che trattasi di finzione scenica (il Quirinale pullula di collaboratori), ma come tutti i 'segni' funziona.

Lo stile di Ciampi è colloquiale ma non asintattico, e il suo discorso è letto. Si è subito distinto dal suo predecessore, titolare di una retorica da sagrestia, perché i suoi interventi sono piani, volutamente scorrevoli, fatti di periodi brevi e senza troppe parentetiche, senza digressioni, senza enfasi. Niente metafore. Pochi aggettivi, e tutti 'normali': se ad un certo momento spuntano le "ardue sfide", o se l'Unione europea diviene improvvisamente "coesa", ciò è bilanciato dal ricorso ad attributi 'di plastica', come "valido". Parole semplici, anche troppo, con qualche concessione solo con funzioni di sottolineatura (la semplicità, che in tutti è un punto d'arrivo, in Ciampi è chiaramente una scelta: è laureato, tra l'altro, in Lettere Classiche). Insomma un discorso a vasto raggio, gradevole, senza tecnicismi, serio ma non serioso.

Allora, ci si chiede, perché l'appuntamento di fine anno col Presidente è così poco incisivo, così magari piacevole ma lontano, così abitudinario e così poco radicato nel nostro costume civile, come avrebbe detto Leopardi?

Il problema, come sempre, è quello non tanto del 'messaggio' (usiamo qualchetermine preso a prestito dalla linguistica), quanto dell' 'emittente' e del 'destinatario'. Il primo, il Presidente, ha un ruolo costituzionale tutto sommato poco incisivo e ben poco riconoscibile. Le cose che dice, i programmi che enuncia, i problemi che mette in campo sono seri e - nel caso di Ciampi di sicuro - fortemente e talvolta emotivamente sentiti: ma le soluzioni non dipendono da lui, che con il potere esecutivo non ha niente a che fare. Così i suoi pacati e riflessivi elenchi (la pace, la scuola, la ricerca, l'immigrazione, l'unità del Paese…) sono una specie di carnet ipotetico, un invito alla riflessione, qualche volta una tiratina di orecchie. Non a caso, le cose meno astratte sono i saluti finali, le esortazioni ai cittadini, gli inviti all'ottimismo e alla serietà dell'impegno familiare e sociale: come un papa laico, il Presidente ammonisce ed esorta, invita e consola.

Il secondo, il 'destinatario', ahimè solo in pochissimi casi è il cittadino. Più spesso è la società politica, insomma i partiti: è a loro che il Presidente si rivolge quando parla di pari dignità di maggioranza e opposizione, di dialogo, di "necessità di un potenziamento delle infrastrutture", di "riforme interne" e via replicando; e sono infatti loro, le onnipresenti e litigiose segreterie dalla più microscopica alla più forte, che il giorno dopo commentano, chiosano, magari replicano. Il resto dell'Italia, qui, è assente. È infatti qui che il cittadino, insomma noi che ascoltiamo, 'stacca' e - vista l'ora - comincia a pensare ai fuochi d'artificio, allo spumante, all'arrosto, alla musica, al vestito da mettere per la festa di Capodanno. A quel punto, ci dispiace dirlo, anche se il Presidente annunciasse l'imminente fine del mondo non se lo filerebbe più nessuno.


Discorso di fine anno del Presidente della Repubblica

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